Diritti

Il giornalismo ha un problema con la maternità

Il settore dell’informazione non è family-friendly per le donne: le discriminazioni che da decenni vivono le giornaliste in gravidanza sono state confermate dal primo studio in materia del Women’s Media Center

Per le donne che lavorano nel giornalismo la gravidanza e la cura dei figli sono una corsa a ostacoli in cui le barriere da oltrepassare sono sempre le stesse da decenni. I lunghi orari di lavoro, in alcuni casi anche fino a notte fonda, la pressione costante e lo stress elevato tipici delle redazioni mal si conciliano con le esigenze delle giornaliste che vogliono diventare madri, il più delle volte costrette a ripiegare su lavori flessibili e meno pagati.

Secondo la recente analisi di OnePoll, la carriera giornalistica è una delle meno family-friendly e questo significa che sono soprattutto le donne a trovarsi spesso di fronte a un bivio che separa la strada della genitorialità da quella della professione.

Giornalismo e maternal bias

L’immagine di Clarissa Ward, la corrispondente di guerra della Cnn, che qualche mese fa si mostrava incinta al quinto mese a Kharkiv è molto lontana da quello a cui siamo abituati, cioè a vedere i giornalisti come macchine operative incessanti nella catena di montaggio della produzione di notizie 24/7.

Sheera Frenkel ha paragonato il suo lavoro come reporter del New York Times dopo la maternità all’attività di un “giocoliere: anche con tutto il supporto, c’è sempre una palla in aria che rischi di far cadere a terra”.

Una corrispondente dell’emittente americana CBS News ha denunciato che essere madre e lavorare come giornalista televisiva è “praticamente impossibile”, in un ambiente estremamente competitivo in cui è ancora diffuso un generale “maternal bias”, ovvero il pregiudizio che le madri lavoratrici siano meno affidabili e diligenti sul lavoro rispetto a chi è senza figli.

La prima ricerca sulle difficoltà di conciliare lavoro giornalistico e maternità

Il primo studio internazionale che ha fatto chiarezza sul tema è stato pubblicato il 13 ottobre dal Women’s Media Center. Le ricercatrici hanno intervistato donne con figli che hanno lavorato nel settore del giornalismo dagli anni ’50 - ’60 ai nostri giorni, scoprendo che alcune delle difficoltà incontrate dalle giornaliste 70 anni fa sono le stesse con cui devono confrontarsi oggi.

Il pregiudizio ora è meno esibito rispetto al passato, quando negli Stati Uniti era considerato accettabile licenziare una giornalista per il solo fatto che fosse incinta ed era prassi diffusa chiedere alle donne di sottoporsi a un test di gravidanza prima di offrire loro un contratto di lavoro. Il momento in cui il pancione cominciava a mostrarsi sotto i vestiti metteva la parola fine alla carriera. Come successo a Eileen Shanahan che lavorava per la United Press International negli anni ’60, umiliata da un collega che le disse: «Non ti vergogni di andare in giro così?» e costretta a rassegnare le dimissioni al quinto mese di gravidanza. Lo studio ha mostrato che alcune di queste discriminazioni di genere sono ancora presenti nell’industria dell’informazione.

Molte delle donne intervistate hanno detto di aver avuto paura di comunicare ai propri capi di essere incinte. La prima preoccupazione è dimostrare che si è pronte a tornare subito al lavoro. Anche per chi vorrebbe prendersi una pausa la decisione non è così semplice. Negli Stati Uniti, a esempio, è protetto a livello federale soltanto il congedo di maternità non retribuito.

Ne consegue che in diversi Stati il congedo retribuito è lasciato alla discrezionalità dei singoli giornali ed emittenti televisive e la ricerca ha mostrato che “molte testate giornalistiche hanno politiche di congedo di maternità che lasciano molto a desiderare. Spesso le policy sono poco chiare e manca trasparenza da parte del management”.

Perciò, le giornaliste non sanno esattamente quali siano i loro diritti nel periodo di maternità e, una volta ripreso il lavoro, faticano a trovare spazi privati e confortevoli per estrarre il latte materno e portare avanti l’allattamento.

Cosa succede in Italia

Nel nostro Paese mancano ricerche dedicate al settore che siano in grado di quantificare le dimensioni del problema. Qualcosa è stato fatto dall’Ordine dei giornalisti della Campania, che l’anno scorso ha avviato un sondaggio sulla motherhood penalty, invitando tutte le giornaliste iscritte all’ordine a rispondere a una serie di quesiti per comprendere quanto la nascita di un figlio incida sulle scelte di astensione dal lavoro e sia collegata ad atteggiamenti e frasi svalutanti da parte di colleghi e dirigenti. Un’iniziativa lodevole della quale non possiamo, però, commentare i risultati che dopo più di un anno sono ancora sconosciuti.

Tra i casi isolati saltati agli occhi della cronaca, il demansionamento della giornalista de Il Sole 24 Ore Lara Ricci, relegata a semplice correttrice di bozze dopo il periodo di maternità obbligatoria: il caso è stato riconosciuto come discriminatorio dal Tribunale del lavoro di Milano, che ha condannato il giornale a reintegrare la giornalista nelle sue mansioni pregresse e a pagarle un risarcimento di 150.000 euro.

Più fortunata, invece, Mia Ceran che durante la sua seconda gravidanza ha avuto la possibilità di prendersi una pausa dal lavoro per alcuni mesi. La conduttrice del podcast The Essential di Will e della trasmissione Nei tuoi panni su Rai 2 ha annunciato in diretta televisiva: «Mi fermo, lo faccio per far crescere un’altra parte di famiglia che è cresciuta anche insieme a voi. Un pensiero a tutte le donne che non possono farlo e sono costrette a far finta che si possa fare tutto».

Un privilegio, quello di ascoltare i diversi bisogno del corpo in gravidanza e nel periodo post partum, che molte giornaliste non si sognano neppure perché, come ha spiegato la stessa Ceran, «chiunque faccia il mio mestiere ha paura di sparire e di non essere richiamato. Chi dice il contrario, o non ci tiene abbastanza o mente».

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