Diritti

Indossare simboli religiosi sul posto di lavoro: l’Ue dice no

La Corte di Giustizia europea ha deciso che la pubblica amministrazione può vietare “qualsiasi segno che riveli convinzioni filosofiche” o di fede ai propri dipendenti in nome di un ambiente “neutrale”
Credit: Vellva UK 
Chiara Manetti
Chiara Manetti giornalista
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30 novembre 2023 Aggiornato alle 08:00

Gli uffici governativi in tutta l’Ue possono vietare ai dipendenti di indossare simboli religiosi, come il velo islamico, allo scopo di creare un ambiente di lavoro “del tutto neutrale”. Lo ha stabilito la Corte di Giustizia dell’Unione Europea - Cgue in una sentenza pubblicata lunedì 28 novembre.

Alla Corte è stato chiesto di pronunciarsi dopo che a una dipendente musulmana in Belgio era stato impedito di indossare il velo sul luogo di lavoro: lei sosteneva che il Comune locale in cui lavorava, così facendo, aveva violato la sua libertà religiosa. Il verdetto ha chiarito che le restrizioni legate ai simboli di fede nelle pubbliche amministrazioni “devono essere applicate allo stesso modo a tutti i dipendenti e rientrare nel contesto giuridico di ciascuno Stato membro”.

La Cgue ha il compito di interpretare il diritto dell’Ue per garantire che sia applicato allo stesso modo in tutti gli Stati membri e di risolvere le controversie giuridiche tra Governi nazionali e istituzioni europee. “La Corte non risolve la controversia nazionale - spiega, perché - spetta al giudice nazionale risolvere la causa conformemente alla decisione della Corte”.

La dipendente del Comune di Ans, una località nel Belgio orientale che conta poco più di 27.000 abitanti, “svolge la sua funzione di responsabile dell’ufficio principalmente senza contatto con gli utenti del servizio pubblico”. Dopo averle vietato di indossare l’hijab, il Comune ha modificato il proprio regolamento di lavoro “e ora richiede ai propri dipendenti di osservare una rigorosa neutralità: è vietata qualsiasi forma di proselitismo e non è consentito indossare segni vistosi della propria appartenenza ideologica o religiosa ai dipendenti, ivi compresi quelli che non sono a contatto con gli utenti”, spiega la Corte in un comunicato stampa. La donna, che riteneva di aver subito una violazione della sua libertà di religione, oltre che una discriminazione, ha fatto ricorso.

Il Tribunale del lavoro di Liegi, che si è occupato del caso, ha osservato che, nonostante fossero vietati i segni evidenti di convinzione religiosa, diverse fotografie procurate dalla donna mostravano chiaramente che «segni discreti di convinzione erano tollerati», come degli orecchini a forma di croce o l’organizzazione di feste natalizie. Lo ha spiegato al Guardian l’avvocata della dipendente, Sibylle Gioe. Il tribunale, allora, si è rivolto all’Ue, chiedendo alla Corte di giustizia di valutare se questa regola desse luogo a una discriminazione contraria al diritto dell’Unione.

La Corte di Lussemburgo ha riposto che la norma “può essere considerata oggettivamente giustificata da una finalità legittima. Altrettanto giustificata sarebbe la scelta di un’altra pubblica amministrazione a favore di una politica che consenta, in maniera generale e indiscriminata, di indossare segni visibili di convinzioni, in particolare filosofiche o religiose, anche nei contatti con gli utenti, o l’introduzione di un divieto di indossare siffatti segni limitato alle situazioni che implicano contatti del genere”.

Ogni Stato membro, così come ogni ente infra-statale, “dispone di un margine di discrezionalità nella concezione della neutralità del servizio pubblico che intende promuovere sul luogo di lavoro, a seconda del suo proprio contesto”. Una finalità che dev’essere perseguita “in modo coerente e sistematico”, con misure “limitate allo stretto necessario” per conseguirla. Spetta ai giudici nazionali dover verificare il rispetto di quei criteri. La legale Gioe ha spiegato che si aspettava una sentenza simile, perché «il diritto dell’Unione europea non opta per una soluzione piuttosto che per un’altra».

Secondo il Guardian, il Forum delle organizzazioni studentesche e giovanili musulmane europee Femyso sostiene che la sentenza rappresenti una “potenziale violazione della libertà di religione e di espressione” e, nonostante la neutralità, questi divieti “prendano immancabilmente di mira il velo”. L’organizzazione ha citato un documento del 2022 dell’Open Society Foundations che sostiene che questi divieti si basano su discorsi islamofobici che ritraggono l’abbigliamento islamico come incompatibile con la neutralità. In un momento in cui l’islamofobia è in aumento, la discriminazione verso le donne musulmane, spiegano, potrebbe ulteriormente crescere.

Nell’ottobre 2022, in un’altra controversia tra una donna musulmana e un’azienda belga sul velo, la Corte di Giustizia ha stabilito che le leggi interne di un datore di lavoro che vietano di indossare visibili segni religiosi, filosofici o spirituali sul lavoro non costituiscono una discriminazione diretta.

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