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Marco Bentivogli: «Padrone è chi ha ancora un’idea preistorica del potere»

Il coordinatore e co-fondatore di Base Italia ha spiegato a La Svolta qual è il messaggio di Licenziate i padroni. Come i capi hanno rovinato il lavoro: «un libro contro una postura che deprime il lavoro dignitoso, che è invece condizione per far fiorire le persone»
Marco Bentivogli
Marco Bentivogli
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29 novembre 2023 Aggiornato alle 11:00

In Italia le dinamiche del rapporto di lavoro rimangono ancorate, spesso, a vecchi concetti padronali; non solo quando si parla di padroni, ma anche quando ci si riferisce a capi, manager o direttori delle risorse umane: figure professionali che, dalle più antiche mentalità padronali, hanno preso il peggio.

È proprio su queste figure che Marco Bentivogli (attivista, politico, coordinatore e co-fondatore di Base Italia, esperto di politiche di innovazione dell’industria e del lavoro) si sofferma nel suo libro Licenziate i padroni. Come i capi hanno rovinato il lavoro (Rizzoli, 176 pagine, 17 euro), da cui emerge un ritratto, a tratti inquietante, del mondo del lavoro in Italia. La Svolta ne ha parlato con l’autore.

Licenziate i padroni. Come i capi hanno rovinato il lavoro: dal titolo il libro sembrerebbe quasi un atto d’accusa contro i “padroni”, ma poi il sottotitolo allarga maggiormente lo sguardo. Quali responsabilità hanno i padroni e i capi nel “rovinare” il lavoro?

Ci sono aziende in cui i capi-reparto fanno “i padroni” in modo più marcato dei reali proprietari, degli amministratori delegati. Padrone è chi ha ancora un’idea preistorica del potere e smonta sistematicamente le passioni pur di rinsaldare il loro rifornimento narcisistico basato sul “controllo”. Questo è un libro contro una postura che deprime il lavoro dignitoso che invece è una condizione per far fiorire le persone nell’orizzonte delle aspirazioni e delle passioni di ognuno. Paradossalmente proprio in un momento in cui il lavoro le richiede maggiormente.

Nell’introduzione scrive che “Oggi i capi dovrebbero avere un ruolo fondamentale nel guidare e accompagnare le trasformazioni, e fa rabbia constatare che invece sono dei mediocri narcisi ossessionati dall’idea del controllo”. In quale modo un capo può guidare e accompagnare le trasformazioni?

La gran parte delle strutture organizzative gerarchiche sono basate sul vecchio paradigma del “comando e controllo”. Struttura gerarchica di origine militare e molto maschile. In realtà il controllo è un illusione e non è solo inutile: è dannoso. In questo senso è per me un riferimento il lavoro di Vittorio Pelligra che evidenzia quanto questo paradigma soffochi in un colpo solo produttività e benessere della persona. Un capolavoro. Forse in epoca fordista il controllo dei pezzi prodotti nell’unità di tempo dal lavoratore aveva qualche senso. Oggi il contenuto del lavoro e della stessa produttività contiene un sempre maggiore “ingaggio cognitivo” ovvero contributo umano. Contributo che cresce investendo su autonomia, libertà, responsabilità e fiducia. Se pensi che il controllo sia più efficace, allora licenzia il tuo capo delle risorse umane e assumi un cane pastore. Per controllare basta e avanza. Non esiste nessuna crescita di generatività senza un autentico investimento sulla libertà di ognuno di noi.

Cito nuovamente: “L’avvento della mediocrazia – i mediocri che raggiungono inaspettatamente ruoli chiave – è uno dei motivi più rilevanti dell’infelicità nel lavoro, della fuga da esso, della bassa produttività”. Quanto la mediocrazia rende più infelice il lavoratore? Ma soprattutto quanto frena la crescita di chi realmente ha dei meriti?

Se ci si pensa bene, questa è una fase in cui centinaia di migliaia di lavoratrici e lavoratori hanno licenziato i loro padroni. Le dimissioni volontarie cosa altro sono? Spesso è stato un turn over in cui si è passati a imprese differenti che garantissero più crescita, più equilibrio tra la vita e il lavoro. C’è in campo un nuovo paternalismo che si presenta con forme più insidiose del vecchio modello “padrone delle ferriere” . Ormai dopo il “siamo una grande famiglia”, “diamoci del tu” le persone non percepiscono un clima amichevole, ma l’azzeramento di qualsiasi prerogativa e iniziano a preoccuparsi.

Quanto è importante il concetto di fedeltà sul posto di lavoro? E soprattutto in quale modo frena la crescita delle aziende e dei lavoratori?

La fedeltà è l’aderenza a impegni e doveri nel proprio ruolo in un’organizzazione. La lealtà riguarda più i rapporti tra le persone, le relazioni configurabili nel sostegno anche emotivo ma sincero. Nelle organizzazioni si fa l’inverso, i dirigenti chiedono la fedeltà personale a loro stessi e lealtà al ruolo e all’azienda. Un pasticcio. Si fanno cose inutili e dannose per le buone battaglie di ogni giorno pur di consolidarsi. Il mediocre ha bisogno di scovare altri mediocri con cui coalizzarsi in un rapporto di fedeltà, perché se si passa sul merito sono guai. Quella che definisco la “postura del sughero”, il galleggiamento, dalla virtù dei senza qualità è diventato un atteggiamento da valorizzare. Quando è così, nel pubblico come nel privato, non funziona nulla, solo i ruoli restano in ordine.

Mediocrazie, relazioni, giuste conoscenze e parentele: quanto incidono all’interno di un’azienda e nello sviluppo della società?

Dalla ridiscussione della meritocrazia (perché senza condizioni di partenza omogenee è una partita truccata) siamo arrivati alla demonizzazione anche della fatica, dell’impegno, dello studio. La finta “meritocrazia” delle Ztl si è ben sposata, paradossalmente, con la cultura dell’“uno vale uno”. Nel celebrare il centenario di Don Lorenzo Milani dovremmo verificare oggi, quante volte scegliamo amici fedeli o parenti invece che le persone di valore. Quante volte rispondiamo solo alla prima domanda “se ho fatto quello che è giusto” senza poi farsi la seconda “mi converrà”. Oggi troppo spesso ci si fa solo la seconda. E per questo siamo una Repubblica fondata sulla rendita (anche di posizione) più che sul lavoro. Abbiamo una parte del gruppo dirigente diffuso contagiato dalla malattia del Fomo, fear of missing out, di essere presenti su tutto, di parlare di tutto e di dire banalità su tutto. Sono un problema serio perché abbassano la qualità del discorso pubblico. La tenuta, la solidità dei gruppi dirigenti è una parte della solidità della democrazia. Non sottovalutiamo questa fase.

«Nessun dirigente, anche il più alto in grado, deve guadagnare più di 10 volte l’ammontare del salario minimo». Questa è una frase di Vittorio Valletta, storico presidente della Fiat, che lei ha citato all’interno del suo libro. Quanto è importante oggi questa frase? E soprattutto quanto non lo è?

Il consesso dei più importanti Ceo del Pianeta, il business roundtable definito “liberista” in cui il documento finale consacrò che il fine ultimo dell’azienda è la soddisfazione e la remunerazione dell’azionista è del 1977. A quell’epoca i Ceo guadagnavano 50 volte lo stipendio dei lavoratori. Quello più liberale del 2019 sposò la responsabilità sociale e i valori Esg. Adesso i Ceo guadagnano mediamente 300 volte i loro dipendenti. Valletta aveva ragione: guarda anche lo stipendio di Tavares rispetto a quello di Marchionne.

A Firenze i ricchi sono gli stessi da più di 600 anni. In Italia manca completamente l’ascensore sociale? La possibilità di nascere figlio di un operaio e arricchirsi?

Si eredita la ricchezza e la povertà. E una parte con l’inflazione scivola dal ceto medio alla povertà. Siamo un Paese bloccato. Abbiamo scuola e università pubbliche, ma non abbiamo maggiori chances di vita. L’istruzione pubblica va difesa con più forza ma se aumentano dispersione e abbandono scolastico, se in alcune aree i voti sono inversamente correlati ai test Invalsi, vuol dire che servono riforme coraggiose centrate sulle ragazze e i ragazzi. In questi giorni è stato fatto un tributo (doveroso) a Luigi Berlinguer, la riforma più importante dell’istruzione italiana, da subito boicottata e messa in mora. La scuola e il lavoro sono gli ascensori fermi al piano terra della nostra mobilità sociale.

In Italia (come in Spagna e in Austria)- la ricchezza degli individui corrisponde a quanto ereditato. La ricchezza non arriva per merito, ma solo perché si è nati nella famiglia giusta. Quindi per un colpo di fortuna. Anche questo è sostanzialmente un sinonimo di mediocrazia?

Non decidiamo né dove nascere né i nostri genitori e il loro status. Analizziamo i cambi generazionali alla guida delle imprese. Troppo spesso (non sempre per fortuna) coincidono con la vendita o la chiusura dell’azienda.

Padroni mediocri e sindacati mediocri: quali conseguenze ha questo incontro?

Attenzione, mai generalizzare. Questo Paese si regge sul lavoro di persone in gamba che guidano le imprese insieme a lavoratrici e lavoratori e in molti casi a relazioni industriali che hanno puntato sull’innovazione. Quando il padrone mediocre incontra il sindacato mediocre si diventa irrilevanti. Si rinuncia a gestire i problemi e le sfide perché si cerca solo di difendere il proprio ruolo. Se le relazioni industriali non sono una sfida, viene tradita la missione propria del fare insieme un passo in avanti.

È vero che la mediocrità richiede di non sbagliare mai?

Noi siamo il risultato delle cose buone che facciamo, ma anche degli errori che riconosciamo e valorizziamo. In Italia il fallimento è demonizzato. Termine cancellato anche dalle norme. Enzo Ferrari accoglieva le persone nella “galleria degli errori” una sala dove erano incorniciati tutti i pezzi che cedevano, si rompevano, funzionavano male. Evidenziarli consente di non colpevolizzare ma di risalirne alle motivazioni. È l’unico modo per fare, come diceva Pierre Carniti, “errori nuovi”.

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