Diritti

Quando il lavoro rafforza i forti

Il rispetto dell’altro come principio fondante di ogni relazione giuridica e base di ogni società che voglia considerarci civile non è principio in voga
Credit: Serge Kutuzov
Tempo di lettura 6 min lettura
9 agosto 2022 Aggiornato alle 06:30

Questa mattina mi sono svegliato con questa frase in testa “alterum non laedere, suum cuique tribuere” (non ledere gli altri, riconosci a ciascuno il suo), un poco come don Abbondio nei Promessi sposi (ricordi: “Carneade: chi era costui?”)

Due dei tre principi su cui si basa la giustizia, secondo il giurista Ulpiano, l’altro è honeste vivere.

Nato in una famiglia operaia, sono cresciuto e istruito nell’etica del lavoro, il lavoro come diritto e valore fondante della Repubblica, il lavoro come strumento che eleva l’uomo attraverso la sua realizzazione: “il lavoro nobilita l’uomo”, Darwin insegna e almeno nella mia infanzia era detto comune a tutta la classe operaia e impiegatizia (anche se poi qualche povero di spirito aggiungeva “e lo rende simile alla bestia”).

Il diritto al lavoro non solo come mero diritto alla retribuzione ma quale strumento nel quale esprimere la propria personalità.

Figlio di un padre che nella sua vita lavorativa si è assentato dal lavoro le due volte che si è operato andando in ospedale e poi una terza volta quando è deceduto per un tumore contratto a causa di lavoro, ho sempre pensato che l’assenza dal lavoro senza giustificazione faccia venire meno quel rapporto per il quale la persona dedica il suo tempo al progresso economico della società e ne riceve retribuzione non solo economica ma anche come sviluppo della società in cui si vive.

Ho una sorella, figlia non a caso di tale padre, che pur potendo godere della cd. legge 104 (che consente permessi retribuiti per dare aiuti a parenti affetti da disabilità), l’ha utilizzata due o tre volte in tutto sebbene nostra madre avesse bisogno di cure e assistenza e mia sorella si sia sempre prestata per aiutarla: l’ha fatto con dignità e spirito di dovere, alzandosi prima o coricandosi dopo, “perché se ti assenti qualcun altro dovrà lavorare per te”. Così ci è stato insegnato dai nostri genitori.

Per tutto questo, io, che ho avuto sempre il cuore a sinistra ma il portafoglio a destra, non ho mai compreso l’indulgenza nei confronti di chi si assenta, di chi viene assunto per una mansione e poi chiede di essere messo in ufficio perché non abile alla mansione per la quale è stato assunto o semplicemente perché l’orario non è consono ai propri bisogni famigliari.

Abbiamo solo parlato di diritti e, senza dovere scomodare John Fitzgerald Kennedy (“chiediti cosa puoi fare per il tuo Paese”), mai considerato i doveri e tutto questo indebolisce i deboli e rafforza i forti, i furbi e i prepotenti: se l’insegnante si assenta tutto l’anno, c’è chi può supplire all’assenza con insegnanti privati e chi rimarrà irrimediabile indietro.

Ho avuto insegnanti nella mia vita che non si sono mai assentati anche con bambini piccoli strenuamente voluti e impegnativi (ricorderò per sempre la mia maestra delle scuole elementari Sandra, madre di due figli, che si assentò due giorni in cinque anni e mi introdusse all’insiemistica e alle basi del calcolo binario e la prof.ssa Francioli in terza media che ci insegnò in latino come se fosse la nostra madre lingua e della quale non ricordo assenze se non un giorno in un anno). Altri li ricordo come mere chimere che comparivano all’inizio dell’anno e poi alla fine del ciclo scolastico per mantenere il punteggio in graduatoria.

Ho avuto fortuna e tanta caparbia, due genitori che mi hanno sempre sorretto e mi sono realizzato, supplendo con dure ore di studio agli insegnanti mai visti grazie a quella forza di volontà che è propria di chi cresce nell’etica del lavoro (potevo stare io fermo quando i miei genitori non si fermavano mai?).

Da figlio di operaio, nipote di operai e artigiani (mio nonno falegname, che aveva iniziato al lavorare a 14 anni, scoppio a piangere quando a 65 anni andò in pensione: “non potrò essere più utile”, diceva), credo però con forza che dobbiamo cambiare: se sei assunto per un lavoro e poi non sei in grado di svolgerlo, non vado a sindacare se è vero quel che affermi (un certificato non si nega a nessuno, se poi c’è il rischio per i medici di essere processati per avere sottovalutato criticità), ma è giusto che tu sia messo in mobilità, anche perfino licenziato e sostenuto con altre forme di assistenza, ma la scuola è un diritto per gli studenti, la città pulita è un diritto per i cittadini, così come la città sicura e la salute un diritto di tutti.

Sinora abbiamo tutelato i pochi senza considerare i più: abbiamo, come nelle scene della carovana attaccata dai pellirosse dei film western anni ‘60, difeso chi stava dentro al cerchio dei carri, senza considerare chi è fuori (si pensi ai vari tentativi di annacquare le riforme pensionistiche rendendole insostenibili per coloro che oggi ne pagano il costo senza speranza di ricevere i relativi trattamenti quando arriverà il proprio turno). Per non parlare dei condoni continui, schiaffi in faccia a chi ha rispettato la legge in nome di non si sa quale pacificazione o stato emergenziale (pace fiscale, emergenza abitativa: solo due esempi della fervida immaginazione degli imbonitori da strada che sono alcuni politici: sempre con lo spauracchio delle rivolte sociali – ne cives ad arma ruant).

Abbiamo sempre ragionato e deciso sulla base dell’esigenza corrente, senza guardare al futuro (pensiamo allo scellerato approccio con il gas russo, che ha dato potere un dittatore con un passato oscuro in tema di rispetto di libertà di opinione e diritti fondamentali di cui non ci si poteva fidare, prima ancora di iniziare l’aggressione all’Ucraina).

Il sistema però non regge e si impoverisce e, alla fine, non sostiene neanche più i pochi privilegiati dalle lobby di turno e i furbi.

Siamo ostaggio dell’immondizia e della malasanità, con i trasporti che funzionano solo se vai con il treno ad alta velocità (a proposito in prossimità della tragedia di Viareggio, si celebravano gli utili delle ferrovie, come se un gestore statale debba fare utili e non garantire dignità ai pendolari e ai fruitori del servizio e la sicurezza di tutti).

La burocrazia ci affligge perché ogni passaggio in più crea potere e dà spazio a gestioni opache e corrotte: il Paese arretra e diventa sempre più povero, basta guardare le tabelle di crescita dal 1980 a oggi.

La solidarietà, principio fondante della nostra Costituzione (articolo 2), è principio per lo più conosciuto solo quando la si invoca a proprio favore e non quando essa diventa dovere nei confronti del prossimo.

Il rispetto dell’altro quale principio fondante di ogni relazione giuridica e base di ogni società che voglia considerarci civile non è principio in voga, semmai siamo sempre a maledire e a offendere l’altro e il diverso, quale capro espiatorio di turno.

La sapienza contadina insegna (non me ne vogliano gli animalisti) che sei vuoi mungere la vacca, la devi nutrire e la devi fare stare bene.

Noi lo abbiamo dimenticato e soprattutto lo hanno dimenticato quei sedicenti paladini dei deboli che alla fine hanno solo tutelato i furbi a scapito degli onesti che pur altro non chiedono che di lavorare con dignità.

Così il mio invito al “partito che non c’è” è di adottare scelte coraggiose, tutelare i deboli dai soprusi dei pochi e dei tanti, e ricordare che il lavoro è tutelato se va a favore della collettività e che il principio fondamentale è riconoscere a ciascuno il suo senza ledere quel che è di altri.

Sull’honeste vivere non mi pronuncio, non oso tanto.

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