Gaza: oltre 4.000 bambini uccisi
L’offensiva via terra dell’esercito israeliano nel nord della Striscia di Gaza continua. Dal 9 ottobre che la zona è stretta nella morsa di un assedio senza precedenti.
2,4 milioni di abitanti, di cui quasi la metà minori di 14 anni, sono rimasti senza acqua, cibo ed elettricità. L’attacco di Hamas del 7 ottobre ha causato la morte di più di 1.400 persone secondo il Governo israeliano. Dall’inizio del conflitto sono morti 332 soldati, alcuni dei quali al confine con il Libano.
Secondo Hamas, l’offensiva israeliana nella Striscia di Gaza ha causato 11.180 morti, tra cui 4.609 minori. Il viceministro della salute di Gaza, Yussef Abu Rich, ha dichiarato il 13 novembre all’Afp che «tutti gli ospedali della parte nord della Striscia di Gaza sono fuori servizio».
Dal 10 novembre Israele attacca anche le strutture ospedaliere, sostenendo che siano utilizzate dai terroristi di Hamas per scopi militari. In questi giorni gli edifici sono rimasti senza elettricità per la mancanza di carburante.
«6 neonati prematuri e 9 pazienti in terapia intensiva sono morti a causa dell’assenza di elettricità nell’ospedale Al Shifa», ha aggiunto il viceministro della salute. L’11 novembre l’ospedale, il più grande della Striscia di Gaza (che in queste ore ospita circa 20.000 sfollati) aveva comunicato che la struttura aveva in cura 39 neonati prematuri e che le infermiere stavano effettuando “massaggi respiratori manuali” per cercare di tenerli in vita.
Mohammed Abu Selmeya, direttore dell’ospedale, nei giorni precedenti aveva lanciato una serie di appelli, avvertendo che il generatore principale stava per spegnersi per mancanza di carburante: «Se succederà, moriranno i neonati nelle incubatrici e i pazienti in terapia intensiva e nelle sale operatorie».
«La situazione nella Striscia di Gaza in queste ore è drammatica - ha spiegato a La Svolta Dina Taddia, consigliera delegata dell’Ong italiana WeWorld, presente sul territorio della Striscia di Gaza dal 1992 - Sono oltre 4.000 i bambini rimasti uccisi, ma sono solo quelli di cui si ha il nominativo. È probabile che ce ne siano altri non ancora identificati, da estrarre dalle macerie».
Un lembo di terra densamente popolata, quasi 5.000 persone per chilometro quadrato: la situazione è poi aggravata dall’evacuazione da Nord verso Sud. «Il nostro personale sul campo ci riferisce che le persone stanno lasciando le proprie case senza un reale posto dove andare. Molti decidono di restare, di non abbandonare la Striscia perché consapevoli che non potranno rientrare per molto tempo in territorio palestinese, forse mai. Molti altri sono costretti perché con anziani o persone malate al seguito», ha aggiunto Taddia.
Come ha spiegato la consigliera delegata di WeWorld, la popolazione che non trova riparo presso l’Agenzia delle Nazioni Unite per il soccorso e l’occupazione dei profughi palestinesi in Medio Oriente (Unrwa) o nei luoghi che dovrebbero garantire una certa sicurezza (“dovrebbero”, perché l’Organizzazione Mondiale della Sanità ha registrato circa 50 attacchi contro le strutture sanitarie a Gaza), come ospedali, scuole e moschee ma che sono già sovraffollati, finisce in magazzini abbandonati o garage messi a disposizione dai proprietari, ammassati gli uni sugli altri.
Le scorte di cibo, acqua e medicinali scarseggiano: sembrano non esserci nemmeno 3 litri di acqua al giorno pro capite. Per avere un metro di misura, in Israele vengono utilizzati 247 litri d’acqua pro capite ogni giorno. «I nostri interventi di prima emergenza perlopiù si sostanziano in distribuzione di beni, mentre in una seconda fase, si creano le basi per garantire una sostenibilità agli interventi, per esempio ricostruendo una rete idrica o allestendo punti di incontro e gioco per i bambini. Quando tutto questo sarà finito, dovremo fare i conti i traumi di una generazione spezzata - ha sottolineato Taddia - Una generazione che ha visto e vedrà nei prossimi anni la mancanza di accesso ai propri diritti fondamentali, come la salute, l’acqua, l’istruzione. Metà della popolazione di Gaza è composta da bambini e bambine e anche se in questo momento la priorità è sopravvivere, non possiamo non pensare a un’intera generazione che è senza accesso alla scuole e che resterà tagliata fuori dall’istruzione nei prossimi anni».
Per questo WeWorld è parte della Campagna Globale per l’Educazione in Italia che (con ARCS, Children in Crisis, CBM Italia, CIFA Onlus, Cisl Scuola, ICEI, Magis, Mais Ong, Mani Tese, Oxfam Italia, Plan International, PRO.DO.C.S., RE.TE.Ong, Save the Children Italia Onlus, Sightsavers International Italia e VIS, con il sostegno delle reti di appartenenza Link2007, CINI, e AOI, e di AVSI) chiede al Paese di impegnarsi a proteggere e promuovere il diritto all’educazione anche in contesti di emergenza e crisi protratte, attraverso un primo contributo di almeno 15 milioni di euro (3,75 milioni l’anno) totali per i prossimi 4 anni al fondo globale Education Cannot Wait.