Diritti

Ue, gender gap accademico: le donne sono solo il 26%

Lo studio pubblicato su The Lancet Regional Health – Europe ha indagato la presenza femminile nei ruoli di professoresse ordinarie e direttrici di dipartimento o centri di ricerca: in Italia sono il 17%
Credit: Cottonbro studio  
Chiara Manetti
Chiara Manetti giornalista
Tempo di lettura 5 min lettura
6 novembre 2023 Aggiornato alle 12:10

Le donne, a livello globale, detengono il 45-55% dei diplomi di laurea e di master. Tuttavia, la discrepanza di genere nell’avanzamento della carriera accademica si sta ampliando: secondo il nuovo studio Unveiling the gender gap: exploring gender disparities in European academic landscape, tra professori ordinari e direttori di ricerca, le donne rappresentavano solo il 26,2% nel 2018 e il 24,1% nel 2015. In Italia, la percentuale scende al 17%, posizionando il Paese al terzultimo posto in Europa.

A condurre la ricerca: Stefania Boccia, ordinaria di Igiene generale e applicata alla Facoltà di Medicina e chirurgia dell’Università Cattolica, e vice direttrice scientifica della Fondazione Policlinico Gemelli; Sara Farina, medico in formazione specialistica alla Cattolica; Raffaella Iafrate, ordinaria di Psicologia Sociale alla Facoltà di Psicologia dello stesso ateneo, presso il campus di Milano, e pro-rettrice delegata alle Pari Opportunità.

Nonostante le donne abbiano raggiunto la parità nel livello di istruzione e i dati del Science Report 2021 dell’Unesco rivelino che in tutto il mondo le ricercatrici rappresentano il 33% del totale, la disuguaglianza di genere cresce man mano che si indagano i ruoli professionali più elevati. Lo studio pubblicato su The Lancet Regional Health – Europe sottolinea come, oltre ad affrontare problemi come la violenza di genere e la discriminazione sul posto di lavoro, le donne sperimentino anche una grave sotto-rappresentazione nei ruoli di leadership del mondo accademico.

Un divario “particolarmente pronunciato nel settore scientifico: mentre per le discipline umanistiche le donne di categoria A (che secondo il glossario dell’Unesco si riferisce al singolo grado/posto più alto in cui viene normalmente condotta la ricerca, ndr) hanno superato il 30% nel 2018, tra i settori scientifici, tecnologici, ingegneristici e matematici (Stem), le cifre scendono al 22% per le scienze naturali e al 17,9% per ingegneria e tecnologia”, sottolinea la ricerca.

Lo studio riconduce “l’inadeguata inclusione delle donne nel mondo accademico” a numerose “barriere significative” e al cosiddetto “soffitto di cristallo”, che ostacolano la loro carriera e limitano il loro potenziale. Le ricercatrici parlano di “pregiudizi impliciti, limitate opportunità di networking e difficoltà di conciliazione vita-lavoro” che impediscono alle donne di raggiungere posizioni di rilievo nel mondo accademico e della ricerca. Le discriminazioni si traducono anche nel non ottenere pari riconoscimento e visibilità per il proprio lavoro, “poiché i pregiudizi nei processi di peer review e nelle decisioni editoriali sottovalutano o trascurano i loro contributi”, continua lo studio.

A proposito della difficoltà di conciliare carriere accademiche e responsabilità familiari, questa colpisce “in modo sproporzionato le donne, soprattutto dopo il parto”: accade soprattutto nei Paesi dell’Europa meridionale, “persiste lo stereotipo secondo cui quando una donna partorisce deve sacrificare la propria carriera per prendersi cura del bambino”. Le ricercatrici, agli occhi di chi si occupa dei processi di selezione e di promozione in ambito accademico, diventano automaticamente meno “produttive” rispetto a com’erano prima della gravidanza, e spesso si percepiscono loro stesse come “meno competitive”, sentendosi “inconsciamente meno importanti rispetto al passato, limitando così la volontà futura di essere leader nella ricerca e nei campi accademici”. Secondo lo studio, anche la “scarsità di modelli e mentori femminili di successo in posizioni di rilievo influisce negativamente sulla fiducia e sull’ambizione delle donne nel perseguire una carriera accademica”.

Il gender gap “perpetua uno squilibrio di potere, limitando la diversità e il pensiero innovativo”, oltre a privare la società di “preziose intuizioni e scoperte rivoluzionarie, impedendo così il progresso della conoscenza e della comprensione”. Ma, aldilà del mondo accademico, rafforza anche le disuguaglianze economiche perché preclude avanzamenti di carriera e, di conseguenza, posizioni retributive più elevate. Un quadro come questo non fa altro che scoraggiare le generazioni future e le giovani donne, rafforzando ancora una volta gli stereotipi di genere.

Esistono, però, varie iniziative volte a promuovere un ambiente di ricerca inclusivo ed equo, spiegano le ricercatrici, come il programma dell’Unione Europea Horizon Europe che punta i riflettori sull’importanza di raggiungere l’equilibrio di genere nei gruppi di ricerca e di combattere i pregiudizi nelle decisioni di finanziamento. O il progetto internazionale Women in Science e agenzie europee come The European Institute for Gender Equality.

Diverse università e istituti di ricerca, inoltre, hanno all’attivo iniziative proprie, come “piani per l’uguaglianza di genere, programmi di tutoraggio e sponsorizzazione su misura per le ricercatrici e pratiche di assunzione e promozione inclusive”. Il lavoro di Boccia, Farina e Iafrate si conclude con un monito: “Lavorando insieme, abbiamo il potere di forgiare un futuro in cui la parità di genere diventi una pietra miliare intrinseca e indispensabile del mondo accademico e della ricerca”.

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