Ambiente

Il potere e la ragione

La Cop28 si avvicina e 130 aziende chiedono una linea dura contro il petrolio. Il confine tra chi pensa agli interessi di tutti e chi guarda solo ai propri non divide più l’impresa privata e la politica pubblica
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26 ottobre 2023 Aggiornato alle 06:30

Ikea, Volvo, Heineken, AstraZeneca, Nestlé, Unilever, Bayer: in tutto circa 130 gigantesche aziende per approssimativamente mille miliardi di dollari di fatturato.

Aggregate dalla We Mean Business Coalition, queste aziende hanno sottoscritto una lettera pubblica indirizzata ai governi del mondo che tra qualche settimana si riuniranno a Dubai per la Cop28.

Chiedono che sia decisa una forte e chiara agenda per eliminare i combustibili fossili dalla produzione di energia, la principale causa dell’emergenza climatica. Che cosa hanno in comune queste aziende? Queste aziende stanno subendo una importante crescita nei costi a causa degli eventi meteorologici estremi dovuti al riscaldamento globale.

Una richiesta così chiara da parte di un così grande numero di aziende relativamente alla politica climatica globale non si era mai vista. Ma quello che colpisce di questo fatto è la manifestazione di una coincidenza di interessi privati con un bene comune come la qualità dell’ambiente.

In questa fase di avvicinamento alla Cop28, il sultano Al-Jaber che presiede i lavori della grande conferenza sul clima e che dirige anche la compagnia petrolifera statale degli Emirati Arabi Uniti, ha dichiarato a sua volta che è necessaria un’agenda che porti alla diminuzione della combustione di petrolio e gas.

In questo caso, si direbbe che sia la visione pubblica e quella privata a convergere verso un bene comune. Il tutto naturalmente è motivato dall’obiettivo stabilito alla Cop che si è svolta a Parigi nel 2015: mantenere il riscaldamento globale ben al di sotto dei 2 °C e indicativamente intorno a 1,5 °C al di sopra dei livelli preindustriali.

Il che secondo l’Ipcc richiede di togliere di mezzo la combustione di petrolio in modo molto significativo entro la metà del secolo.

Ovviamente, tra la proposta di eliminare la combustione di petrolio e quella di diminuirla c’è una bella differenza. Ma è chiaro che la linea di confine tra chi lavora per risolvere il problema climatico non è più quella che divide gli interessi pubblici e quelli delle aziende private.

In fondo, questo fenomeno sembra dimostrare il possibile inizio di una nuova fase storica del capitalismo.

Nel periodo precedente, l’idea fondamentale era stata articolata dall’economista premio Nobel Milton Friedman nelle sue opere scritte tra il 1962 e il 1970, divenute particolarmente famose con il titolo di un suo articolo pubblicato dal New York Times Magazine: La responsabilità sociale dell’impresa è di aumentare i suoi profitti.

Friedman sosteneva che la conduzione delle aziende doveva essere tutta concentrata esclusivamente sulla massimizzazione del valore per gli azionisti, rispettando le leggi. E che qualsiasi deviazione da questo obiettivo sarebbe stata una forma di socialismo o di collettivismo.

Il contesto della Guerra Fredda che opponeva gli Stati Uniti all’Unione Sovietica - e il capitalismo del libero mercato al capitalismo di Stato - spiega un po’ la posizione di Friedman. Ma le conseguenze di quelle idee hanno condotto all’alleanza dei governi neoliberisti occidentali e delle grandi corporation capitalistiche, a tutto vantaggio di queste ultime, grazie alle politiche di deregolamentazione e liberalizzazione.

Sebbene già dal 1972 si sapesse, grazie al rapporto dell’Mit al Club di Roma intitolato I limiti dello sviluppo, che il modello della produzione agricola e industriale fondato sull’indiscriminato consumo di risorse non rinnovabili avrebbe provocato disastri ambientali e demografici, le politiche neoliberiste hanno ritardato per decenni le decisioni importanti che oggi sono diventate tanto urgenti.

Oggi, molte aziende private e numerosi governi sembrano convergere per dare agli interessi generali una priorità su quelli meno lungimiranti e particolari: e la discriminante, appunto, non è più nella distinzione tra le logiche di mercato e le logiche della politica. C’è una nuova alleanza potenziale tra stati e imprese private, il che condurrebbe a un ripensamento del capitalismo come quello per esempio suggerito da Rebecca Henderson in Reimagining Capitalism (PublicAffairs 2020), un libro teso a dimostrare che al capitalismo conviene cambiare.

La discriminante oggi è un’altra.

Alla Cop27, un’ottantina di stati hanno proposto un’agenda forte per l’uscita dalla combustione di petrolio. Russia e Arabia saudita si sono opposte. Facevano i loro interessi pubblici e certamente non erano biasimate dalle grandi aziende petrolifere private occidentali che continuano a investire nell’aumento della produzione di petrolio - anche finanziando il consolidamento del settore - perché sono convinte, a differenza di quanto suggerisce la Iea, che la domanda di petrolio crescerà per molti anni ancora.

La discriminante è tra chi è disposto a innovare per risolvere i problemi e chi preferisce mantenere in vita il più a lungo possibile un sistema fondato su modelli tradizionali e orientato a fare gli interessi dei pochi privilegiati, azionisti privati e governanti pubblici, che anche in condizioni di cambiamento climatico estremo pensano di cavarsela benissimo. La linea di confine non è più tra il capitalismo del libero mercato e il collettivismo: è tra il potere e la ragione.

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