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Gender gap, Eleonora Graffione: «Per cambiare rotta ci vuole un’evoluzione di pensiero»

«Abbiamo le quote rosa, ma siamo altresì convinte che non siano sufficienti: restano un mezzo non il fine», ha dichiarato a La Svolta la presidente dell’Associazione Donne del Retail
Costanza Giannelli
Costanza Giannelli giornalista
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12 ottobre 2023 Aggiornato alle 13:00

Quello delle aziende non è (ancora) un mondo da donne. Lo dicono i dati sul gender gap retributivo, che colpisce tutte e soprattutto le madri. Lo dicono le esperienze delle almeno 1 milione e 400.000 donne che hanno subito molestie sessuali dai colleghi o dal capo. Lo dicono i soffitti di vetro che rimangono saldi nonostante una sempre maggiore presenza femminile; infine, lo dicono i numeri ancora esigui delle donne in posizioni apicali.

Eppure, cambiare le cose si può. Come? Iniziando a immaginare una cultura aziendale davvero inclusiva e, soprattutto, facendolo insieme: creando reti e connessioni, sostenendosi le une con le altre. È quello che vuole fare, iniziando dal settore del retail, l’Associazione Donne del Retail, nata a luglio 2023 grazie all’idea di un gruppo di donne che ricoprono ruoli di responsabilità in importanti aziende italiane e internazionali.

Le socie fondatrici sono Eleonora Graffione (Coralis), presidente; Grazia De Gennaro (Maiora – Despar Centro Sud), vicepresidente; Cristina Lazzati (Mark Up e Gdoweek); Barbara Gabrielli (Magazzini Gabrielli); Alessandra Corsi (Conad); Dominga Fragassi (Pam Panorama); Rossella Brenna, consulente.

A parlarne con La Svolta è Eleonora Graffione, dal 2002 Presidente di Coralis, consorzio di imprese della piccola distribuzione.

La sotto-rappresentazione femminile è un problema globale, ma come si colloca in questo contesto l’Italia? E, soprattutto, come si possono cambiare le cose?

Se siamo di fronte a un problema globale, possiamo dire senza approssimazione che in Italia questo tema è ancora più sentito. Lo dicono i dati ed è inutile ripeterli, siamo indietro in tutti i settori, ma soprattutto nel Retail. Non ci aiuta la cultura, gli stereotipi, non ci aiutano le norme anche se quelle che dovrebbero tutelarci esistono. Per cambiare rotta ci vuole un’evoluzione di pensiero, da sistema patriarcale a sistema inclusivo, dove le differenze sono valore di accrescimento e non di discriminazione. Abbiamo le quote rosa, ma siamo altresì convinte che non siano sufficienti: restano un mezzo non il fine.

Lei è Presidente dell’associazione Donne del Retail: come nasce e quali sono gli obiettivi?

Nasce tra amiche che spesso negli ultimi anni si sono confrontate su questi temi. Siamo 7, tutte provenienti dal mondo della GD/DO (grande distribuzione/distribuzione organizzata, ndr) oltre a una giornalista, la vera promotrice. Ognuna di noi ha un profilo diverso e un percorso professionale diverso e questo è un valore aggiunto perché ci permette di avere una visione più ampia sui temi che ci siamo prefisse di raggiungere nell’Associazione. Vogliamo fare rete e costruire con le nostre Associate un percorso di crescita di consapevolezza, di autorevolezza, di leadership, di pari opportunità e non ultimo per importanza di linguaggio.

Quante donne lavorano in ambito retail e quante sono in luoghi apicali? La vostra associazione punta a coinvolgerle in quali temi e quali emergenze?

Moltissime se consideriamo quante operatrici lavorano nei supermercati, o semplicemente nel retail più ampio. Il problema emerge quando si guardano i dati nei ruoli apicali, pochissima presenza in ruoli determinati ai fini decisionali, per non parlare di Ceo, o di presenza di donne nei Consigli d’Amministrazione. I dati ci dicono: divario di genere 2023, l’Italia si posiziona 79° posto (63° posto nel 2022), l’Italia arretra; presenza delle donne ai vertici o in ruoli di senior management 2022, 30% (nel 2021 era 29%), lieve crescita (Fonte: Global Gender Gap Report 2023, World Economic Forum, ndr). Eppure è largamente dimostrato che la presenza di donne non solo rende gli ambienti più inclusivi, ma generalmente porta a risultati economici più importanti.

Presto ci sarà il primo evento dell’associazione. Può darci qualche anticipazione su cosa accadrà il 23 novembre a Milano?

Sarà un momento di incontro con le socie che in questi mesi hanno aderito all’associazione, sarà un momento di confronto dove condivideremo, tra le altre tematiche, anche i dati di una ricerca che abbiamo commissionato ad hoc. Ci avvarremo della presenza di una relatrice filosofa, di cui non sveliamo ancora il nome, che ci inviterà a guardare la situazione da prospettive differenti. Un’occasione per approfondire, scoprire e ragionare insieme su temi che ci stanno a cuore e sui quali abbiamo scelto di impegnarci.

In questi giorni si è parlato moltissimo della pubblicità che ha messo al centro il tema delle famiglie divorziate, che ha ricevuto apprezzamenti ma anche molte critiche. Vale ancora il “bene o male purché se ne parli”? Mettere al centro l’emotività invece che il prodotto è una scelta che paga?

Di sicuro ha fatto parlare e molto, a nostro avviso troppo. È divisiva e non nascondiamo che anche al nostro interno nella chat di gruppo che avviamo avviato su questo tema abbiamo avuto una pluralità di pensieri. Per noi è stato un motivo di confronto, di dialogo, un’opportunità per avere più ampie vedute. Emotività o prodotto? Domina sicuramente la prima, ma il payoff “ogni spesa è importante” vorrebbe riportare al prodotto. Ci piacerebbe sapere se alla base c’è un pensiero femminile, o uno maschile.

Come è cambiato il modo di fare comunicazione e marketing nel mondo del retail? E qual è stato il ruolo delle donne in questo cambiamento?

Sta cambiando e molto, da mere operazioni di marketing legate a promozioni e prezzi, ricche di immagini fini a sé stesse, oggi assistiamo a una comunicazione e a operazioni di marketing che hanno dei contenuti, raccontano i prodotti, raccontano i territori, si occupano di iniziative sociali e in questo le donne che, almeno in ambito di comunicazione e marketing vedono una larga presenza, hanno fatto la differenza, laddove le donne sono riuscite a stimolare persino “capi maschi” su argomenti la cui sensibilità femminile è più forte.

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