Culture

“Si è sempre fatto così”, la scusa per mantenere lo status quo

Nel saggio, edito da Tlon, la pedagogista Alessia Dulbecco indaga sulle gabbie di genere che guidano l’educazione di bambine e bambini e come queste non siano mai state messe in discussione
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29 ottobre 2023 Aggiornato alle 13:00

Si è sempre fatto così è un saggio di Alessia Dulbecco, pedagogista, formatrice e counsellor specializzata nel contrasto alla violenza di genere, che dopo un decennio di attività in vari centri antiviolenza, oggi collabora con scuole, aziende e associazioni.

L’obiettivo di questo libro, edito da Tlon, è di cercare di portare una riflessione su quanto siano influenti quelle che la pedagogista Irene Biemmi definisce gabbie di genere nei metodi educativi dei vari contesti frequentati da persone più o meno giovani, che hanno l’effetto di imporre inconsapevolmente delle forme di limitazione alle possibilità di sviluppo e di scelta.

Come spiegato dall’autrice, la pedagogia “studia i processi formativi che caratterizzano l’essere umano nell’arco dell’intera esistenza”, non occupandosi pertanto solamente di minori ma anche di adulti (non necessariamente genitori). Sono loro infatti ad avere delle responsabilità nella crescita di bambini e bambine e nella replicazione di queste gabbie di genere che caratterizzano la vita delle donne, per cui è molto più facile che le conseguenze ricadano anche in un contesto professionale, e degli uomini, coinvolti in modo deleterio per loro e per le persone attorno soprattutto da un punto di vista emotivo e relazionale.

L’obiettivo del volume non è quello di schierarsi ma di mostrare come tali dinamiche siano corrosive e pervasive nella vita delle persone. Dulbecco si interroga su questo partendo da due libri dal contenuto speculare, pubblicati diversi decenni fa: Dalla parte delle bambine della pedagogista Elena Gianini Belotti e Maschio per obbligo della giornalista Carla Ravaioli. Il primo aveva gettato le basi della pedagogia di genere, descrivendo come le opportunità delle bambine di crescere liberamente, assecondando le proprie inclinazioni, “si limitano drasticamente in virtù di un presunto modello, fatto di delicatezza, sottomissione e spirito di sacrificio, a cui tutte vorrebbero aderire, pena il biasimo sociale.” Il secondo si sofferma sull’imposizione ai bambini e agli uomini di aderire a “un modello di maschilità predatoria e violenta, senza spazio per le emozioni, la cura e il rispetto dell’alterità.”

Si è sempre fatto così, dopo un’introduzione al significato della pedagogia e degli stereotipi di genere, mostra studi, ricerche ed esempi concreti forniti dall’esperienza di Dulbecco nel suo lavoro e è suddiviso in tre parti corrispondenti all’infanzia, all’adolescenza e all’età adulta. “Riflettere sugli stereotipi radicati nei modelli usati nell’educazione di bambini e bambine, compito primario della pedagogia di genere, diventa quindi un’occasione per mostrare come essi possano contribuire a mantenere inalterate (o a cambiare, se ci impegniamo in questo senso), le strutture sociali, culturali e simboliche in cui tutti e tutte ci muoviamo”, spiega l’autrice, che cita il sociologo Bordieu per indicare come gli stereotipi di genere siano quelli più difficili da decostruire perché “per farlo dobbiamo mettere in discussione ciò che diamo per naturale”, come a esempio il binarismo. Esso impone infatti “una rigida separazione tra le sfere di competenza assegnate ai due generi”, ed è adottato dal sistema patriarcale per gerarchizzare i generi ponendo al vertice il maschile, e di conseguenza rendendo “tutto ciò che pertiene al femminile marginale”, e obbligando “i maschi a aderire a un certo standard di virilità per non perdere lo status assegnato ed essere confusi con chi si colloca in un rango inferiore”.

Molte disparità della nostra società sono costruite a partire da ciò che diamo per scontato, da elementi che consideriamo apparentemente innocui come i colori - l’autrice ripercorre storicamente le tappe che hanno trasformato il blu e il rosa in due simbolici indicatori di genere – e i giochi, che sin dalla più tenera età hanno un valore culturale nell’insegnare a bambini e bambine la propria posizione del mondo. Dulbecco ha osservato come le scelte dei giocattoli vengano indirizzate partendo dal genere, e come i genitori credano che queste possano predire il futuro orientamento sessuale di figli e figlie (con più preoccupazioni nei confronti dei maschi), ma il suo obiettivo non è confutare queste prassi consolidate, bensì “ricercare le motivazioni profonde che spingono a non metterle in discussione, a considerarle “naturali”.

La complessità delle azioni necessarie per mettere in dubbio secoli di tradizioni patriarcali è elevata per un’infinita serie di ragioni, ma come indica l’autrice, “pensare che si è sempre fatto così ci porta a osservare tutto ciò che ci è stato tramandato da una prospettiva globale e unitaria, portandoci di fatto a ignorare le voci dei dissidenti che la storia dei femminismi ha cercato di raccontare e il loro apporto nella storia delle discriminazioni. L’opposizione ideologica alle pratiche educative in ottica di genere, adottata a esempio da chi si oppone alle proposte di educazione sessuale e affettiva o a modelli di cura differenti – compito che attualmente spetta principalmente sia in famiglia che in ambito professionale alle donne – ha pesanti conseguenze sul piano del work-life balance, contribuendo a mantenere l’attuale status quo, che difende gli interessi di una parte della società secondo regole che non sono in alcun modo naturali, e che non valorizzano le differenze di cui ogni persona è portatrice”.

Se non sei molto fan dei “gender reveal parties”, le celebrazioni organizzate per far scoprire il sesso del figlio o della figlia portato in grembo, questo libro farà per te. Se ti piace questa cosa, questo libro ti farà cambiare idea.

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