Ambiente

I paradossi della comunicazione “verde”

Con la sentenza del tribunale di Gorizia contro la pubblicità ingannevole di un’azienda, torna ad accendersi il dibattito sul greenwashing. Prevenirlo, dice l’esperto, significa raggiungere un punto di equilibrio tra veridicità e correttezza
Tempo di lettura 5 min lettura
26 febbraio 2022 Aggiornato alle 08:00

La recente sentenza del tribunale di Gorizia, che ha sanzionato un’azienda per la pubblicità ingannevole rispetto alle caratteristiche “green” dei suoi prodotti, segna un passaggio forse determinante su questo tema. Stiamo infatti vivendo un’epoca di paradossi nel rapporto tra marketing e sostenibilità ambientale. Se fino a un decennio orsono, ci si lamentava del fatto che le imprese trascurassero i temi ambientali nelle pubblicità, oggi le imprese si muovono in un’arena competitiva in cui praticamente tutti i concorrenti parlano di ambiente.

In altre parole, oggi la concorrenza si gioca non più tra chi fa leva sui temi ambientali nella comunicazione e chi sceglie di ignorarli, ma tra chi comunica in modo efficace e credibile e chi non è in grado di farlo. I consumatori, in particolare, indicano nelle più recenti indagini che la convinzione che le imprese facciano greenwashing nelle proprie pubblicità, sia la prima ragione per non scegliere i prodotti ecosostenibili sul mercato.

Greenwashing è un neologismo formato a partire dalle parole “green” e “whitewash”, che letteralmente significa “imbiancare”, anche nel senso di “mascherare” o “coprire male”. Il termine è stato inserito, per la prima volta, nell’Oxford English Dictionary nel 1999 ed è stato coniato per indicare le situazioni in cui un’azienda impiega più risorse ad affermare la propria sensibilità ambientale e/o i benefici ambientali dei propri prodotti (attraverso comunicazione, pubblicità, marketing, etc.) piuttosto che nel mettere in atto misure realmente in grado di ridurne l’impatto ambientale.

In altri termini, il tentativo di “tingere di verde” prodotti, servizi, attività e brand commerciali conduce l’impresa a commettere uno o più “errori”, che il mercato è in grado di riconoscere – in un tempo più o meno lungo, anche a seconda dell’entità e della gravità degli stessi – subendone di conseguenza un danno in termini di immagine, reputazione e credibilità.

L’errore principale, padre di tutti gli altri, è quello che generalmente viene compiuto in piena buona fede dalle aziende: un imprenditore o un manager si “innamora” di uno specifico aspetto della sostenibilità, per esempio la “carbon neutrality” che oggi va di gran moda, lo persegue con grande impegno e dedizione, con notevole dispiego di risorse, e quindi vuole poi valorizzarlo fortemente sotto il profilo della comunicazione e del marketing, spesso trascurando alcune cautele fondamentali.

Occorre prevenire i rischi del greenwashing per evitare contraccolpi sulla propria competitività. Un primo rischio da evitare è quello di comunicare in modo frettoloso e troppo qualitativo o generico, senza fondarsi su robusti dati scientifici. Un altro errore comune è “forzare” i benefici ambientali o sociali conseguiti, presentandoli in modo eccessivamente enfatico ed esagerando i vantaggi comparativi rispetto ai prodotti o alle aziende concorrenti.

Un ulteriore sbaglio è quello che spinge i responsabili di un’azienda a puntare tutto su un particolare beneficio ambientale o sociale, incardinando su di esso l’intera strategia di comunicazione e di marketing, dimenticandosi però delle prestazioni su altri aspetti della sostenibilità, magari più rilevanti per quell’azienda, o addirittura nascondendo svantaggi a esso legati (i cosiddetti “trade off”: utilizzo di materiali meno inquinanti, ma provenienti da luoghi molto lontani e quindi con grandi impatti ambientali dei trasporti), etc.

Efficacia e correttezza sono due dimensioni distinte della comunicazione ambientale, l’una non implica l’altra e viceversa.

Una comunicazione ambientale può dirsi efficace nella misura in cui è in grado di “arrivare” al destinatario e di influenzarne, di volta in volta, percezioni, convinzioni e aspettative, fino a modificarne scelte e comportamenti secondo gli obiettivi che l’azienda si è proposta di conseguire attraverso quella data strategia. La dimensione della correttezza attiene, invece, alla sfera della veridicità, dell’accuratezza e della “non ingannevolezza” della comunicazione, indipendentemente dalla sua maggiore o minore efficacia. Un’informazione molto tecnica e dettagliata comunicata attraverso l’etichetta di un prodotto può certamente dirsi corretta, ma tutt’altro che efficace.

Il punto di equilibrio dovrebbe il seguente: per comunicazione ambientale corretta si deve intendere una comunicazione che non solo dice il vero (correttezza “del contenuto”), ma che lo dice con il linguaggio corretto, usando la forma, i tempi e gli strumenti corretti. Solo questo approccio è in grado di far conseguire all’azienda gli obiettivi di marketing e comunicazione che si è data. Se la correttezza si intende come veridicità e completezza per l’uso (ovvero adeguata rispetto allo specifico target), questa coincide con l’efficacia.

Una sentenza come quella emessa dal Tribunale di Gorizia stabilisce, in definitiva, che raggiungere quel punto d’equilibrio nel costruire la comunicazione delle proprie performance ambientali non è un più un optional. Meglio tenerne conto.

Fabio Iraldo è professore ordinario presso la Scuola Superiore di Studi Universitari e Perfezionamento S.Anna di Pisa, Dipartimento di Management e Tecnologia. Autore di numerose pubblicazioni tra cui, insieme a Michela Melis, Oltre il Greenwashing: linee guida sulla comunicazione ambientale per aziende sostenibili, credibili e competitive (Edizioni Ambiente).