Diritti

Ciclisti travolti, non ci sono più lacrime

Era giugno quando abbiamo pianto l’ultima donna sulla bici uccisa a Milano, ma non è servito. Ieri un’altra giovane vita è stata stroncata con le stesse modalità. La politica appare paralizzata, la cittadinanza assuefatta
Credit: Arne Dedert/dpa

Era il 23 giugno scorso quando l’ennesima ciclista milanese, Alfina D’Amato, moriva travolta da una betoniera.

Prima di lei, l’8 maggio, un uomo, ancora prima, il 23 aprile Cristina Scozia, di 39 anni, il 1 febbraio sempre di quest’anno Veronica D’Incà, 38 anni, e infine ancora a novembre 2022 Silvia Salvarani.

Sei morti in meno di un anno, quasi tutte donne, perché le donne usano la biciclette più degli uomini, ci portano la spesa, i bambini: questi mezzi sono espressione un po’ della nostra vita flessibile, costrette come siamo a fare lo slalom tra i vari impegni della giornata.

Di questa strage così evidente e chiara, che chiedeva risposte immediate, ne scrissi proprio qui dopo la morte di Alfina D’Amato e dopo l’ennesima protesta accesa in strada delle associazioni di ciclisti e di mobilità sostenibile. Che oggi, dopo la morte della ventottenne Francesca Quaglia, dicono di essere davvero “senza più lacrime”. E si chiedono, come fa oggi Marco Scarponi, fratello del campione investito e ucciso nel 2017, “come è possibile che l’assessore alla Mobilità sia ancora al suo posto dopo tutto quello che è successo”?.

Deroghe che uccidono vite ricche e complesse

Quello che colpisce leggendo la biografia di Francesca Quaglia è la sua straordinaria ricchezza culturale, laureata in Lingua, letteratura e linguistica scandinava all’Università Ca’ Foscari, specializzata sempre in Lingue in Svezia, dove aveva vissuto, dopo essere cresciuta a Bologna.

Traduttrice, copywriter, femminista, blogger, inventrice di un laboratorio di scrittura, aveva trovato una piccola casa con un giardino con il suo compagno.

Immaginiamo la cura della casa, degli oggetti, delle piante, così come curava la sua bici vintage. Una complessità meravigliosa, una straordinaria fioritura esistenziale stroncata da un mezzo pesante in una città dove betoniere e bici possono circolare fianco a fianco.

A giugno Sala promise che entro ottobre i camion avrebbero dovuto avere il sensore per l’angolo cieco per ottobre e io pensati: chi tutela i ciclisti fino a ottobre? Allora ricapiterà. E infatti così è stato. Ma a ottobre non saranno tutti ad avere questo dispositivo di sicurezza, perché c’è una deroga che consente di circolare anche se non lo si ha, ma lo si ha ordinato. E siccome non sono pezzi che si trovano facilmente, questo potrebbe voler dire mesi.

Il disegno di legge del ministro dei Trasporti, Matteo Salvini, prevede per i ciclisti praticamente solo la famosa distanza di sicurezza di un metro e mezzo per sorpassarli ma unicamente, come segnalato da Bikeitalia, “ove le condizioni della strada lo consentano”, una definizione che rischia di depotenziare la misura.

Un’assuefazione inquietante

È così che si risponde a un’emergenza? “Assuefatti, siamo assuefatti”, scriveva oggi il padre di Francesco Valdiserri in un corsivo amaro sul Corriere della Sera.

Perché se non fossimo assuefatti non si spiegherebbe come mai accettiamo la morte di giovani donne, madri, una dietro l’altra. Né, quella di giovanissimi che si schiantano la notte su strade provinciali. Né quella dei tanti uomini e donne che muoiono a Roma sulle strade.

E proprio quest’estate a Roma i morti sulle strade si sono succeduti al ritmo quasi di uno a giorno, a volte persino due. Soprattutto, oltre a pedoni anziani, ormai sempre di più, uomini di mezza età, sullo scooter, spesso padri, costretti a prendere questo mezzo perché a Roma non è possibile spostarsi altrimenti. Dichiarazioni delle amministrazione in merito? Nessuna.

Assuefatto sembra davvero essere il comune di Roma, che a parte gli annunci, e alcuni lavori, sugli incroci pericolosi rispetto alla sicurezza stradale e alle morti instrada pare aver in buona parte gettato la spugna. Lo stesso assessore Patané ha spiegato che sì, c’è la volontà di applicare a Roma la zona 30 km/h ovunque ma al momento il verbo è declinato al futuro. L’obiettivo è ridurre entro tre anni i decessi del 20% ed entro 10 anni del 50 per cento. Il che significa che, forse, se si interviene come annunciato, nel 2033 avremo “solo” una settantina di morti l’anno a Roma.

Un problema nazionale. Che ci piazza lontanissimi dal nord Europa

Il problema delle morti in strada si inserisce in un problema più ampio che riguarda tutto il Paese.

Se le ferrovie vengono dismesse, alta velocità a parte, se le corriere che collegano i vari Paesi pure sono soppresse, alle persone non resta che spostarsi in macchina.

Se in città come Roma i mezzi pubblici impiegano un’ora per un tragitto di un quarto d’ora con la macchina e per entrare nelle metro a singhiozzo, e che spesso si fermano, bisogna spintonarsi, è chiaro che le persone prenderanno la macchina per spostarsi.

In Italia sono morte 3.159 persone nel 2022, con una crescita, altro che obiettivi decessi zero, del 10% rispetto all’anno precedente: 1.375 occupanti di autovetture, 781 motociclisti, 70 ciclomotoristi, 485 pedoni, 205 ciclisti, 16 in monopattino.

In Europa siamo i peggiori dopo Romania, Bulgaria, Croazia, Portogallo, Lettonia, Grecia e Ungheria: 53 vittime per milione di abitanti, contro i 21 e 26 di Svezia e Danimarca.

Non c’è dubbio: tra i vari aspetti che rendono l’Italia un Paese che ha sta perdendo la sfida con la modernità, diritti, parità di genere, lavoro retribuito, misure antipovertà, contrasto alla crisi climatica c’è anche questo. Un sistema dei trasporti insostenibile che, oltre alle emissioni, uccide ogni anno più di 3.000 persone. Praticamente, come i morti delle Torri Gemelle. Morti, però, invisibili, senza paginate sui giornali e servizi in tv, senza risarcimenti, senza monumenti alla memoria.

Leggi anche
Mobilità
di Alexandra Suraj 3 min lettura
mobilità
di Redazione 2 min lettura