Economia

Big Tech: perché non aumentano gli utili

Nonostante la crisi, il fatturato per Google, Meta, Microsoft e Amazon segna +20% nell’ultimo anno in Italia. Spicca, però, un valore di utile molto basso e a risentirne è il gettito fiscale italiano
Credit: Vincent Isore/IP3 via ZUMA Press
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29 agosto 2023 Aggiornato alle 12:00

Prosegue, senza sosta, la crescita del giro d’affari delle multinazionali statunitensi nonostante la crisi che ha portato, nei mesi scorsi, a numerosi licenziamenti. È il caso di Meta, o di Twitter (ora X) oppure della multinazionale Amazon.

Nonostante le crisi e i licenziamenti a livello globale, il fatturato di queste aziende continua a crescere, in Italia e non solo.

Nell’ultimo anno, infatti, le Big Tech hanno sfiorato i 6 miliardi di euro di fatturato nel nostro Paese, aumentando complessivamente del 20% il fatturato nell’ultimo anno.

Ma andiamo nel dettaglio: ad aumentare maggiormente il fatturato è stata Google, che ha incrementato i ricavi da 700 milioni a 1 miliardo di euro. Un aumento del 22% fino a giugno 2022 lo registra, invece, Microsoft, che ha raggiunto un fatturato pari a 1,2 miliardi di euro.

Un incremento del 18% si rileva invece per Meta che, grazie soprattutto alle inserzioni presenti nei social Facebook e Instagram, ha raggiunto un fatturato pari a 411,5 milioni di euro. a ottenere il primato, però, è Amazon con un valore di fatturato pari quasi a 3,3 miliardi di euro, +17,3% rispetto allo scorso anno.

C’è, però, un risvolto negativo: nonostante il grande valore dei ricavi di queste multinazionali nel nostro Paese, guardando dal punto di vista degli utili, la situazione non è così rosea. Innanzitutto, in economia si parla di utile per indicare la differenza tra i ricavi e i costi di un’azienda. L’insieme di queste quattro multinazionali, nell’ultimo anno, avrebbe registrato un valore di utile pari a 133 milioni, che corrisponde al 2,2% dei ricavi in Italia.

Qual è il motivo? Queste grandi aziende riescono a eludere la tassazione sul reddito in Italia perché trasferiscono i profitti nei cosiddetti “paradisi fiscali”, dove le aliquote sono sicuramente più favorevoli. Tutto ciò, ovviamente, finisce per danneggiare il gettito fiscale italiano.

Per cercare di far fronte a questo problema, l’Italia ha introdotto a partire dal 2019 la cosiddetta “web tax”, o “tassa sui servizi digitali”.

Si tratta di un’imposta del 3% che si applica per assoggettare a tassazione il fatturato prodotto da imprese non residenti nel territorio nazionale che, operando in rete attraverso prestazioni di servizi immateriali, producono ricavi in Italia senza pagare imposte sui relativi redditi, in quanto privi di stabile organizzazione.

I servizi sottoposti a tassazione sono:

- trasmissione di dati raccolti da utenti e generati dall’utilizzo di un’interfaccia digitale;

- veicolazione su un’interfaccia digitale di pubblicità mirata agli utenti della medesima interfaccia;

- messa a disposizione di un’interfaccia digitale multilaterale, che consente agli utenti di essere in contatto e di interagire tra loro, anche al fine di facilitare la fornitura diretta di beni o servizi.

Non è altro, quindi, che una tassa che riguarda la pubblicità digitale su siti e social network, l’accesso alle piattaforme digitali, i corrispettivi percepiti dai gestori di tali piattaforme, e anche la trasmissione di dati “presi” dagli utenti con l’obiettivo di contrastare l’elusione e l’evasione fiscale.

Sembra, però, deludere le aspettative: dal 2020 – quindi da quando è entrata in vigore – in poi, la web tax nel nostro Paese ha generato per lo Stato un incasso pari a 928 milioni di euro, un importo significativo ma comunque dimezzato rispetto alle previsioni.

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