Diritti

Singapore giustizierà una donna per la prima volta in 19 anni

L’ultima esecuzione di una detenuta risale al 2004. Secondo le stime del Transformative Justice Collective, sono 54 le persone nel braccio della morte nel Paese: tutte, eccetto 3, sono state condannate per reati legati alla droga
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Chiara Manetti
Chiara Manetti giornalista
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27 luglio 2023 Aggiornato alle 16:00

Mercoledì 26 luglio Singapore ha giustiziato un uomo, Mohammed Aziz Hussain, nella prigione di Changi. La ricca città-stato a sud della Malesia, nota in tutto il mondo per l’alta concentrazione di persone milionarie che vi risiedono, ha condannato a morte il 56enne nel 2018 per traffico di droga per circa 50 grammi di eroina. Secondo il Transformative Justice Collective, che tiene traccia dei casi nel braccio della morte, non sarà l’unica esecuzione della settimana: venerdì la stessa sorte toccherà a una donna, per la prima volta in quasi 20 anni.

Saridewi Djamani è stata condannata alla pena di morte nello stesso anno di Hussain per il possesso di circa 30 g di eroina ai fini dello spaccio. Nel 2004 un’altra donna, una parrucchiera di 36 anni, era stata impiccata per traffico di droga.

Le 2 esecuzioni di questa settimana hanno riaperto il dibattito attorno alla pena di morte nel Paese, riservata ai reati di droga e poco altro: secondo le stime di TJC, che lotta per la riforma del sistema di giustizia penale di Singapore, sono circa 54 le persone nel braccio della morte, di cui tutte, escluse 3, condannate per reati legati alla droga. La prima persona giustiziata nel 2023 è stata Tangaraju Suppiah, condannato per il traffico di poco più di 1 kg di cannabis.

Secondo gli attivisti, la maggior parte dei detenuti che verranno giustiziati sono persone ai margini della società: «Le autorità non sono turbate dal fatto che la maggior parte delle persone nel braccio della morte provengano da gruppi emarginati e vulnerabili - ha spiegato Kirsten Han, giornalista e attivista impegnata da anni contro la pena di morte a Singapore - Le persone che si trovano nel braccio della morte sono quelle ritenute superflue sia dai boss della droga che dallo stato di Singapore. Non è qualcosa di cui i singaporiani dovrebbero essere orgogliosi».

Se anche Djamani verrà giustiziata come previsto, Singapore avrà impiccato 15 persone per reati di droga da quando ha ripreso le esecuzioni nel marzo 2022, dopo una pausa di 2 anni dovuta alla pandemia. L’ultima risaliva a novembre 2019. Si tratta di una media di 1 esecuzione al mese.

Il Transformative Justice Collective, insieme a Amnesty International e ad altri 7 gruppi in difesa dei diritti umani, spiega che il diritto internazionale prevede che la pena di morte sia limitata ai “reati più gravi”, come l’omicidio volontario: le esecuzioni per reati di droga chiaramente non soddisfano il criterio previsto dal Patto internazionale sui diritti civili e politici (ICCPR).

Singapore ha alcune delle leggi sulla droga più dure del mondo: insieme a Cina, Iran e Arabia Saudita è uno dei 4 Paesi in cui, nel 2022, sono state eseguite esecuzioni per reati legati alla droga. Anche il Vietnam e la Corea del Nord potrebbero aver giustiziato dei detenuti per gli stessi motivi, secondo l’ultimo rapporto di Amnesty International relativo alla pena di morte nel mondo, ma le loro uccisioni non sono note. Nel 2022 il numero di esecuzioni globali per reati legati alla droga è più che raddoppiato rispetto all’anno precedente.

Nel mondo, circa due terzi dei Paesi hanno abolito la pena capitale. L’ultimo è stato il Ghana, che è divenuto il 29° Paese in Africa a farlo. Nel dicembre 2022, in 125 hanno votato per una sospensione della pena di morte alle Nazioni Unite: nel giugno 2022, la Thailandia ha rimosso la marijuana e la canapa dalla lista degli stupefacenti; l’anno successivo in Malesia è stata abolita la pena di morte obbligatoria per il traffico di droga.

2 organismi dell’Onu incaricati di sviluppare e monitorare le politiche in materia di droga, l’Ufficio delle Nazioni Unite contro la droga e il crimine e l‘International Narcotics Control Board, hanno condannato l’uso della pena di morte per reati legati alla droga e hanno sollecitato i Governi a procedere verso l’abolizione.

”È inconcepibile che le autorità di Singapore continuino a perseguire crudelmente altre esecuzioni in nome del controllo della droga - ha dichiarato in una nota Chiara Sangiorgio, esperta di pena di morte di Amnesty International - Non ci sono prove che abbia un effetto deterrente o che abbia un impatto sull’uso e la disponibilità di droghe. Mentre i Paesi di tutto il mondo aboliscono la pena di morte e abbracciano la riforma della politica sulle droghe, le autorità di Singapore non stanno facendo nessuno dei due”.

Secondo la dichiarazione congiunta del TJC e altri gruppi, sarebbe stato lo stesso ministro della Legge K. Shanmugam, in un’intervista rilasciata nel settembre 2022, a confermare che questa politica non stia portando all’arresto dei cosiddetti Kingpins, i boss della droga: «Stiamo catturando solo i piccoli e non i grandi? È una domanda non pertinente perché, sapete, i grandi non vengono a Singapore per buone ragioni».

A luglio dello scorso anno 8 esperti delle Nazioni Unite hanno osservato che “un numero sproporzionato di persone appartenenti alle minoranze viene condannato alla pena di morte obbligatoria a Singapore”. La ricerca del TJC ha rilevato che quasi due terzi dei condannati a morte per reati di droga tra il 2010 e il 2021 erano di etnia malese, una minoranza nella città-stato. Ma il Governo continua a sostenere che la pena di morte sia un efficace deterrente contro i reati legati alla droga, che mantenga la città-stato al sicuro e sia ampiamente sostenuta dal pubblico.

E ritiene di condurre processi giudiziari equi. Eppure, secondo il TJC, Hussain sosteneva che le sue dichiarazioni non fossero ammissibili perché l’agente investigativo a cui le aveva rilasciate lo aveva costretto, promettendogli un’accusa ridotta e non capitale. Ma l’ufficiale ha negato tutto, e il giudice gli ha dato ascolto.

Djamani, invece, ritiene di non essere stata in grado di fornire dichiarazioni accurate alla polizia perché in quel momento era in crisi di astinenza. Anche in questo caso, il giudice non ha accolto le rimostranze della detenuta che, come molti altri, non può permettersi un avvocato ed è costretta a rappresentarsi da sola. In quel momento, ha detto, le sue condizioni non hanno compromesso la sua capacità di rilasciare dichiarazioni agli agenti.

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