Diritti

Arabia Saudita: le esecuzioni sono aumentate dell’82% dal 2015

Secondo il rapporto di Reprieve e dell’Organizzazione saudita europea per i diritti umani tra il 2010 e il 2021 sono state giustiziate almeno 1.243 persone. Nel 2022, 147
Mohammad Bin Salman Al Saud nel 2021
Mohammad Bin Salman Al Saud nel 2021 Credit: HOCH ZWEI
Chiara Manetti
Chiara Manetti giornalista
Tempo di lettura 4 min lettura
14 febbraio 2023 Aggiornato alle 09:00

Spargimenti di sangue e bugie: il regno delle esecuzioni di Mohammed bin Salman è il titolo del nuovo rapporto sulle esecuzioni in Arabia Saudita. È stato realizzato dall’organizzazione senza scopo di lucro Reprieve e dall’Organizzazione saudita europea per i diritti umani, fondata da un gruppo di attivisti con l’obiettivo di rafforzare i diritti umani nel maggiore Paese della penisola arabica, denominato “la terra delle due sacre moschee” per via dei due santuari più sacri dell’Islam a La Mecca e a Medina.

In Arabia Saudita la pena di morte è prevista per un’ampia gamma di reati appartenenti a 3 categorie della legge islamica, spiega il rapporto: Qisas (retributiva), Had (obbligatoria) e Ta’zir (discrezionale). Sono i giudici ad avere il potere di determinare quale comportamento possa costituire un reato e quale debba essere la sua punizione, inclusa la pena di morte. Tutto è deciso a porte chiuse, è vietato pubblicare gli atti giudiziari e le accuse vengono talvolta modificate.

Secondo il rapporto, tra il 2010 e il 2021 sarebbero state giustiziate almeno 1.243 persone, tra cui 490 cittadini stranieri, ma il numero potrebbe essere più alto. Gli anni più sanguinosi sono stati quelli sotto la guida del principe ereditario Mohammed bin Salman, in carica dal 2017. L’ascesa di suo padre, re Salman, salito al trono nel 2015, ha segnato l’inizio della sua presa di potere, oltre all’inizio di un clima di terrore: se dal 2010 al 2014 si sono verificate in media 70,8 esecuzioni all’anno, dal 2015 al 2022 ce ne sono state 129,5 ogni anno. Il tasso di esecuzione è salito dell’82%.

Tra il 2010 e il 2021, i reati punti con le esecuzioni sono stati classificati dagli autori del report in 7 gruppi: omicidio, traffico di droga (compreso il contrabbando), reati sessuali, formazione o appartenenza a un gruppo criminale organizzato o a un gruppo proibito, sequestro di persona o falsa detenzione accompagnata da aggressione, furto con scasso o rapina, sedizione, tradimento e altri reati legati alla sicurezza dello Stato, stregoneria. Eppure, “il diritto internazionale richiede agli Stati che mantengono la pena di morte di limitarne l’applicazione ai “crimini più gravi”, ampiamente accettati come uccisioni intenzionali”, spiega Reprieve.

In Arabia Saudita la pena di morte viene abitualmente utilizzata per reati non letali e per mettere a tacere dissidenti e manifestanti. Anche se il principe ereditario Mohammed bin Salman aveva promesso che sarebbero state utilizzate solo per l’omicidio. Il rapporto incorona il 2022 come uno dei più sanguinosi mai registrati nella storia recente del Paese, con almeno 147 persone giustiziate, di cui 81 in un unico giorno: quella del 12 marzo è stata la più grande esecuzione di massa della storia del Regno. E queste sono solo le cifre note: le autorità saudite “mantengono segreti i processi capitali e il braccio della morte”, riporta Reprieve, e “non rispetta i requisiti delle Nazioni Unite sulla pubblicazione di informazioni sul suo uso delle esecuzioni”.

La direttrice dell’organizzazione, Maya Foa, ha dichiarato che «L’esplosione del numero di esecuzioni in Arabia Saudita sotto Mohammed bin Salman è una crisi che la comunità internazionale non può continuare a ignorare». La pena di morte non guarda in faccia nessuno: «Mastica bambini, manifestanti, donne vulnerabili al servizio domestico, corrieri della droga inconsapevoli e persone il cui unico “crimine” era possedere libri vietati o parlare con giornalisti stranieri. E tutto mentre Mbs (Mohammed cin Salman, ndr) mente al mondo dicendo di aver riformato il sistema per ridurre il numero di persone giustiziate».

A metà gennaio il Guardian aveva parlato del professore di legge pro-riforme Awad Al-Qarni, arrestato nel 2017, che ora rischia la pena di morte in Arabia Saudita per presunti reati, tra cui aver condiviso notizie considerate “ostili” al Regno sul suo account Twitter da 2 milioni di follower e su Whatsapp. L’ha denunciato al quotidiano britannico il figlio Nasser, che l’anno scorso è fuggito e vive nel Regno Unito.

Il 2017 è lo stesso anno in cui lo scrittore e giornalista Jamal Khashoggi, critico nei confronti del re e del principe ereditario, ha lasciato l’Arabia Saudita, in una sorta di auto esilio. L’anno successivo, Kashoggi è scomparso: una volta entrato nel consolato dell’Arabia Saudita a Istanbul, in Turchia, non ne è mai uscito. Dopo una serie di accuse, il 19 ottobre 2018 la televisione di Stato saudita ha confermato la sua morte, a seguito di un “diverbio”. Un mese dopo, la Cia ha stabilito il mandante del suo omicidio: Mohammad bin Salman.

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