Futuro

Il pollice all’insù non è consenso

O forse questa emoji è entrata così tanto nella nostra comunicazione virtuale che digitarla, ormai, rappresenta un vero e proprio vincolo? Dovremmo, invece, imparare a dare più peso ai nostri gesti
Credit: Cottonbro studio
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14 luglio 2023 Aggiornato alle 06:30

Nell’antica Roma con un pollice rivolto verso il basso (il famoso pollice verso ) si condannava a morte un gladiatore sconfitto in un combattimento nel Colosseo. Nell’arena digitale del web un pollice all’insù (l’ormai egualmente famoso “like”) non vale meno e non segna meno il destino di una persona.

Ha fatto scrivere tanto, da questa parte e dall’altra dell’oceano, nei giorni scorsi, la notizia di un giudice canadese che ha ritenuto che un imprenditore che aveva commesso l’imprudenza di rispondere con un pollice all’insù (una delle tante emoji protagoniste della nuova comunicazione via chat) a un acquirente abituale che gli aveva trasmesso un contratto per l’acquisto di diverse tonnellate di lino, avesse con ciò accettato il contratto come se lo avesse sottoscritto per adesione.

Per carità niente di trascendentale o inedito nella dimensione giuridica giacché da questa parte come dall’altra del mondo basta, talvolta, molto meno per concludere certi contratti; e comunque il giudice in questione nella sua sentenza si preoccupa di chiarire che non sta naturalmente scrivendo una regola generale né fissando un principio valido per ogni stagione, ma sta decidendo un caso specifico nel quale, tra l’altro, tra i 2 imprenditori c’era una lunga consuetudine di contratti conclusi, eseguiti con poca attenzione alla forma.

Ma l’occasione è preziosa per ricordare che alcuni nostri gesti digitali ormai divenuti di uso quotidiano pesano molto di più di quanto suggerisca la semplicità e leggerezza con la quale li compiamo.

Proprio il pollice alzato che il giudice canadese ha appena considerato un segno convenzionale valido ai fini della conclusione di un contratto, a esempio, da questa parte dell’oceano è stato a più riprese (anche se non in maniera univoca) considerato sufficiente a diffamare o a istigare all’odio razziale.

È successo, anche di recente, in Italia, in Svizzera, in Germania e in diversi altri Paesi che utenti che, magari frettolosamente, avevano alzato il loro pollice digitale su post o contenuti diffamatori o antisemiti siano stati trascinati in Tribunale e condannati, anche in sede penale, per aver commesso questo o quel reato.

E non si tratta di conclusioni peregrine o draconiane perché, in effetti, che ci si pensi o no, che lo si sappia o no, quei like, complici gli algoritmi che governano le piattaforme di social network, spingono i post e i contenuti più lontano di dove sarebbero arrivati naturalmente per mano del solo autore e li propongono alle reti sociali di chi, appunto, tira su il pollice, manifestando adesione al messaggio illecito in questione.

Questo, forse, suggerisce un paio di riflessioni. La prima ci riguarda tutti: dobbiamo (non dovremmo) imparare a dare più peso a certi gesti che per quanto immateriali hanno ormai acquisito un significato sociale e giuridico univoco e sono entrati a far parte di un nuovo linguaggio globale che non vale di meno di quello delle parole scritte in questa o quella lingua.

Non farlo può costarci caro ma, soprattutto, può offendere, ledere altrui reputazione, discriminare e far male al destinatario di certi simboli o dei contenuti sui quali appiccichiamo certe icone.

La seconda ci riguarda egualmente tutti ma, anche e soprattutto, i gestori delle piattaforme. Perché se mettere un like è così facile, se lo facciamo con tanta leggerezza, se lo facciamo così spesso e così tanto a cuor leggero non è o, almeno, non è solo perché siamo tutti superficiali, perché andiamo di corsa, perché non ci curiamo abbastanza del peso delle nostre parole e dei simboli che le rappresentano nella nuova koiné internazionale ma è il risultato scientificamente perseguito da chi progetta, disegna, sviluppa e gestisce le piattaforme attraverso le quali si consuma la nostra esistenza online.

Perché, naturalmente, non sta scritto da nessuna parte che per mettere un like sotto un post debba servire un solo tap sullo schermo del nostro smartphone e non potrebbe esserne utile un secondo per confermare la volontà di tirare per davvero su il pollice. E non sta scritto da nessuna parte neppure che per condividere un contenuto debba bastare un istante e non possano servire 30 secondi, così da offrire all’utente la possibilità di ripensarci.

Ma il punto è che più è facile mettere like: più like mettiamo, più i contenuti circolano e più i contenuti circolano, più utenti ne fruiscono, più aumentano i dati personali raccolti dalle grandi piattaforme digitali e più diventano precisi e, quindi, preziosi i profili di consumo che possono poi essere “venduti” agli investitori pubblicitari.

Insomma a chi gestisce le piattaforme conviene molto di più che gli utenti alzino il pollice con leggerezza, rapidità e spensieratezza piuttosto che lo facciano con calma, ponderazione e riflessione. Ma è così anche per noi, per la società, per la dieta mediatica del mondo intero, per i mercati e per le democrazie?

Forse no e questo è il paradosso del pollice alzato: tanto leggero eppure tanto importante. Bisognerebbe smetterla di sacrificare l’importanza delle parole e dei simboli che le rappresentano sull’altare del profitto di pochi.

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