Ambiente

Inizia la “guerra” del deep sea mining

Via alla riunione dell’International Seabed Authority per fissare regole sulle estrazioni in profondità. Cina, Corea del Sud, Russia e Norvegia puntano a estrarre metalli dagli abissi ma Francia Germania sono contro
Credit: EPA/MARTIN DIVISEK
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10 luglio 2023 Aggiornato alle 21:00

Caccia ai metalli degli abissi. Nel cuore della Giamaica questa settimana sono iniziati i colloqui su uno dei temi più discussi per il futuro: il deep sea mining, le estrazioni in profondità di tutti quei metalli ed elementi oggi sempre più richiesti per le tecnologie, il progresso e la transizione energetica.

A sovrintendere le questioni sulle estrazioni in acque internazionali è l’International Seabed Authority (Isa), ente che da anni - senza successo - dovrebbe portare ad accordi globali sulla regolamentazione delle licenze e della gestione dei progetti in acque profonde e internazionali.

Adesso, durante un nuovo tentativo di definire le linee guida per queste attività, il mondo sembra dividersi fra Paesi che si oppongono alle estrazioni visti i potenziali danni ambientali (su tutti Francia e Germania), e quelli che invece vorrebbero poterle sfruttare, come a esempio Cina, Russia, Corea del Sud o Norvegia.

Questi ultimi paesi vorrebbero poter estrarre con progetti minerari il cobalto, rame, nichel, manganese e altri preziosi elementi che si trovano nelle profondità degli oceani e sono oggi sempre più richiesti dalle batterie dei veicoli elettrici sino ai pannelli solari. Senza regole chiare, altri stati parlano apertamente di enormi rischi ambientali in un contesto - quello dei mari - già messo a dura prova dalle attività antropiche, dalla crisi del clima sino all’inquinamento da plastica.

Circa 168 Stati membri per tre settimane ora prenderanno parte ai negoziati nel tentativo di fissare regole chiare sulle attività in profondità. Francia, Germania e Cile stanno tentando di guidare una cordata che porti a un approccio cauto, con una pausa ad attività di estrazione finché non si arriverà a regole concordate e tali da non arrecare danni agli ecosistemi degli oceani. Cina e altri invece puntano a ottenere via libera e permessi per poter estrarre in nome della transizione ecologica ed energetica necessaria per l’elettrificazione, a esempio. Sull’intera vicenda pesa oggi un cavillo sfruttato dall’isola di Nauru per cui, dopo due anni da una precedente richiesta (appena scaduti), l’Isa sarebbe costretto a “considerare e approvare provvisoriamente” le domande di licenza mineraria. Il processo dovrebbe portare alla prima domanda di licenza commerciale al mondo in acque internazionali “entro la fine di quest’anno con l’obiettivo di iniziare la produzione nel 2025”.

Anche per via di questa questione, diversi Paesi, tra cui Germania e Olanda, premono affinché l’Isa fissi regolamenti chiari e con obblighi legali, cosa che finora non è riuscito a fare.

Al contrario la Cina è il più grande Stato membro dell’Isa a scommettere esplicitamente che il fondale marino potrebbe aiutare fin da subito a prolungare l’approvvigionamento di minerali critici che oggi iniziano a scarseggiare nelle miniere terrestri. Già oggi la Cina detiene cinque licenze di esplorazione. Su questo Washington non sta a guardare: in un recente rapporto Usa si sostiene infatti che la Cina sta facendo “passi aggressivi e sfacciati” per dominare l’estrazione mineraria dai fondali marini. Anche gli Stati Uniti detengono licenze di esplorazione per il Pacifico, ma non sono membri Isa.

In attesa di capire gli sviluppi sulle regole dell’estrazione, a farsi sentire sono soprattutto gli ambientalisti che chiedono - in nome degli ecosistemi - di fermare il deep sea mining.

Anche in Italia c’è stata una azione, sul litorale pisano, in cui Greenpeace con un grande polpo viola e uno striscione con il messaggio “Stop deep sea mining” ha dato vita a un flash mob di protesta.

«Le estrazioni in acque profonde sono l’ultima follia umana che deve essere fermata sul nascere, con una moratoria internazionale - racconta Giuseppe Ungherese, responsabile della campagna Inquinamento di Greenpeace Italia - Questi ambienti marini profondi, in gran parte ignoti e non ancora intaccati dalle attività antropiche, rischiano infatti di essere sacrificati sull’altare di una presunta penuria di materie prime in settori come quello dell’elettronica, delle comunicazioni e della produzione di energia».

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