Ambiente

Deep sea mining: problema o soluzione?

Secondo l’Ocse, il valore dell’economia blu raddoppierà entro il 2030. Al centro, ci sarà l’estrazione di metalli e terre rare, una pratica che comporta però diversi rischi ambientali
Credit: Ursula Krapf
Tempo di lettura 4 min lettura
5 maggio 2023 Aggiornato alle 15:00

Nei fondali marini potrebbe celarsi il futuro della transizione ecologica, ma le attività di estrazione dei metalli rari potrebbe distruggere i delicati ecosistemi degli oceani. Più volte il deep sea mining nelle acque internazionali è stato paragonato a una “corsa all’oro”.

L’Ocse prevede che il valore dell’economia blu raddoppierà, dagli attuali 1.500 miliardi di dollari ai 3 mila entro il 2030. Il suo giro d’affari non riguarderà solo la pesca, l’eolico off-shore, i cavi sottomarini e l’approvvigionamento di idrocarburi, oggi in calo grazie agli sforzi in ottica green. Al centro ci sarà la ricerca di giacimenti di noduli polimetallici e terre rare.

Al momento, non c’è ancora una normativa internazionale che consenta e regoli il deep sea mining, anche se la Cina, le isole Cook e altri Stati del Pacifico stanno spingendo per accelerare i tempi di approvazione. Per esempio, a giugno 2021, la repubblica insulare di Nauru ha attivato “la regola dei due anni”. Si tratta di un meccanismo legale che permette alla società Nauru Offshore Resources Inc (Nori), una sussidiaria del gigante minerario The Metals Company, di iniziare a sfruttare i fondali marini internazionali su scala industriale da luglio 2023.

Nell’ultimo biennio però l’Autorità internazionale dei fondali marini (Isa), organo Onu istituito nel 1994, non è riuscita a trovare un accordo normativo sulle estrazioni minerarie. Non è infatti semplice fare convergere le esigenze dei 167 Stati membri e dall’Unione europea per la protezione degli habitat e l’approvvigionamento di materie prime strategiche per la transizione digitale ed energetica. Il segnale arrivato a marzo dalle Nazioni Unite, con l’approvazione del Trattato per la tutela del 30% degli oceani, compreso l’alto mare, entro il 2030, non basta a placare l’interesse delle compagnie minerarie.

«Allo stato attuale - ha detto Michael W. Lodge, segretario generale dell’Isa, a Roma, presso la sede della Fondazione Leonardo - abbiamo una trentina di progetti di esplorazione e mappatura dei fondali attivi in tutto il mondo, da noi coordinati». A scandagliare i fondali, in cerca di litio, rame, manganese e terre rare, fondamentali per le pale eoliche e le batterie delle auto elettriche, sono attualmente 22 Stati. In particolare, «la Cina ne finanzia cinque, la Russia tre, la Germania, il Giappone, la Repubblica di Corea, l’India due. Altri sono sostenuti da Francia, Germania, Polonia, Regno Unito, Belgio».

L’Italia invece «è tra i Paesi europei non ancora coinvolti nella sponsorizzazione - ha spiegato Lodge - All’inizio, negli anni Ottanta, nell’ambito di un consorzio con gli Usa e altri aveva espresso un certo interesse, poi questo è venuto meno», nonostante tra le zone al centro dell’attenzione ci sia anche il Mar Mediterraneo. A suscitare l’interesse internazionale sono soprattutto le profonde pianure abissali della Clarion Clipperton Fracture Zone (Ccz). Ben diciassette dei trentuno permessi concessi fino a ora dall’Isa per le esplorazioni riguardano quest’area, che va dai 4.000 ai 6.000 metri di profondità, fra il Messico e le Hawaii. Sono invece solo due i contratti stipulati per l’Oceano Indiano centrale e il Pacifico nord-occidentale.

Anche se il deep sea mining potrebbe rappresentare un’occasione per riequilibrare tra le diverse potenze geopolitiche la disponibilità di metalli e terre rare, questa pratica comporta diversi rischi ambientali. Enormi disturbi sonori e di movimento, contaminazione e inquinamento dell’acqua, danni alle popolazioni ittiche e alla capacità degli oceani di assorbire l’anidride carbonica prodotta sul Pianeta sono solo alcune delle conseguenze individuate dalla deep sea conservation coalition.

«L’estrazione di noduli dal fondale marino profondo - estrazione di depositi di sfiati idrotermali (per oro, argento, rame e zinco) e rimozione di croste di cobalto ferro-manganese dai fianchi delle montagne sottomarine - sarebbe devastante per la vita marina», ha affermato Matthew Gianni, co-fondatore e consigliere politico del gruppo. Il gruppo, che comprende 100 organizzazioni internazionali, tra cui Greenpeace, Oceana, SharkLife e Save Our Seas, ha chiesto all’ISA una moratoria globale sulle attività, in attesa di studiarne meglio gli impatti e di poter fare una valutazione più approfondita.

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