Economia

Il richiamo delle terre rare

Negli ultimi 30 anni abbiamo comprato tanto, troppo. Nell’era della globalizzazione, lo sfruttamento delle materie ha un ruolo centrale
Credit: nigrizia.it
Azzurra Rinaldi
Azzurra Rinaldi economista
Tempo di lettura 4 min lettura
25 ottobre 2022 Aggiornato alle 06:30

Nel corso degli ultimi anni, la globalizzazione ha mostrato tutti i suoi limiti.

Disuguaglianze, sfruttamento delle persone e dell’ambiente, concentrazione del reddito nelle mani di pochissimi eletti sono solo alcuni degli effetti collaterali di questo sistema di produzione.

La globalizzazione esplode a partire dagli anni Novanta dello scorso secolo, quando alcune grandi imprese, soprattutto statunitensi, iniziano a cercare luoghi dove delocalizzare la propria produzione con l’obiettivo di ridurre i costi legati alla manodopera e di massimizzare i propri profitti. Da allora, ad aumentare in modo vertiginoso, come non era mai accaduto nella storia dell’umanità, non è solo il livello di interscambio tra Paesi, ma anche il valore della produzione mondiale di ricchezza, ovvero il Pil.

Certo, gli effetti positivi della globalizzazione sono innegabili: nel corso degli ultimi 30 anni si è drasticamente ridotto il volume delle persone sotto la soglia di povertà, stando ai dati della Banca Mondiale. Tuttavia, i suoi effetti a lungo termine sono fonte di crescente preoccupazione.

L’avvento di nuovi modelli

Vorremmo poter dire che non siamo stati noi. Che le multinazionali sono spietate e senza cuore. Ma la verità è che chiunque abbia un’età superiore ai 20 anni è in qualche misura corresponsabile di quanto è avvenuto. Il successo della globalizzazione è stato decretato, infatti, dalla trasformazione dei modelli di consumo della popolazione, in un circolo virtuoso che si è autoalimentato.

L’incremento della scala di produzione ha consentito alle imprese di abbattere i costi e, di conseguenza di entrare sui mercati con un prezzo dei beni più contenuto. La risposta della domanda da parte dei consumatori mondiali (in particolar modo, bisogna dirlo, da parte di quanti vivevano nei Paesi più ricchi) è stata da manuale.

A fronte della riduzione dei prezzi, la quantità di beni acquistati a livello mondiale è aumentata in maniera molto più che percentuale. E così, negli ultimi 30 anni abbiamo acquistato tanto, tantissimo, troppo. Troppi vestiti, troppi mobili, troppe automobili, troppi cellulari. Abbiamo acquistato più beni di quanti ne potessimo effettivamente consumare nell’arco della nostra vita, senza pensare alle conseguenze.

Ritorno alla terra sì, ma alla terra rara

Purtroppo, però, le conseguenze ci sono. E, ora lo sappiamo, sono devastanti.

L’ambiente non riesce più a contenere i nostri ritmi di consumo, lo smaltimento dei beni che acquistiamo e non utilizziamo più è insostenibile, il nostro utilizzo delle risorse naturali è miope rispetto alle esigenze delle generazioni future. La pandemia ci ha mostrato come la natura, se lasciata un po’ più libera dai nostri interventi massicci, tende a riprendersi i suoi spazi (e così, siamo stati felicissimi di rivedere i delfini in laguna, molto meno ovviamente di rivedere i cinghiali al centro di Roma). E da più parti si parla di un ritorno alla terra. Ma non siamo ancora a quel punto. O almeno, non come potremmo auspicarci.

Perché, nonostante tutto, la globalizzazione rappresenta il sistema produttivo imperante. E le terre vengono valorizzate solo in quanto funzionali, ancora una volta, allo sfruttamento delle materie prime. Lo sa bene la Cina, che ospita il 90% dei siti di estrazione dei metalli fondamentali per produrre i nostri smartphone, computer e televisori, tra l’altro. Non è una banalità, dal momento che negli ultimi 30 anni abbiamo consumato un volume di metalli superiore a quanto non avessimo fatto nei 300 anni precedenti.

E, arrivati a questo punto, chi detiene i metalli detiene il potere. A meno che non si ribalti il tavolo.

Leggi anche
Energia
di Caterina Tarquini 3 min lettura
Cambiamento climatico
di Giacomo Talignani 2 min lettura