Culture

Storie di donne dietro le sbarre

In Tutte le cose che ho perso, Katya Maugeri dà voce alle detenute, per portar fuori i loro pensieri e far capire cosa significhi davvero vivere dentro quelle mura. E denunciare le criticità di genere del carcere
Costanza Giannelli
Costanza Giannelli giornalista
Tempo di lettura 5 min lettura
27 giugno 2023 Aggiornato alle 11:00

“Il carcere, oggi, sembra quasi un contenitore della irrisoria devianza, ma cosa avviene all’interno di questa istituzione? Quali sono i progressi, le attività, i progetti che si sviluppano? Come si vive tra donne che hanno addosso tanta rabbia e sogni infranti? E come ne escono? Migliorate, rassegnate o senza vita?”.

Del carcere si parla (non ancora abbastanza) sempre da fuori. Cosa accada dietro le mura, le sbarre, le serrature che imprigionano vite nella maggior parte dei casi non riusciamo nemmeno a immaginarlo, se non attraverso il filtro della telecamere di film e serie tv.

Delle donne in carcere parliamo ancora meno. Forse perché sono poche (solo il 4% dei detenuti, secondo statistiche ormai stabili da decenni), forse perché sono un’anomalia. Non solo perché sono corpi e vite femminili in un regime carcerario pensato solo per gli uomini in una società maschilista e patriarcale che considera il maschio la norma, ma anche perché sono si sono allontanate dall’ideale di donna, moglie e madre che quella società maschilista e patriarcale ha assegnato loro.

Perché quando varchi le sbarre “cambia tutto, si rivolta contro ogni ruolo; se entri in carcere non sei più una donna perbene, non sei una moglie, una madre esemplare, tutto perde di riferimento e resti semplicemente una detenuta che ha preferito commettere errori e non curare i propri legami”.

A parlare è la detenuta della “Cella n. 9”. A riportare le sue parole, insieme a quelle di altre donne che come lei hanno attraversato i corridoi della Casa Circondariale di Rebibbia, è Katya Maugeri, nel libro uscito per Villaggio Maori Edizioni Tutte le cose che ho perso. Storie di donne dietro le sbarre (15 euro, 110 pagine). Un libro breve ma intensissimo, che ci porta “all’interno di solitudini intrise di rabbia, un desiderio di riscatto con il retrogusto amaro della sconfitta”.

Storie di donne che non smettono di raccontarsi e non smettono di raccontare cosa voglia dire, davvero, non solo stare dentro, ma anche uscire fuori, dopo. “‘Ma fuori da dove?’ risponde la più anziana delle donne che ho intervistato. ‘Dal carcere’. ‘E perché, secondo te c’è davvero differenza tra dentro e fuori? Soprattutto se sei una ex detenuta o semplicemente una donna piena di moltitudini?’”.

Ed è proprio delle vite di queste donne piene di moltitudini che questo libro ci fa varcare la soglia, portandoci dentro celle piccolissime senza bidet in cui le criticità endemiche del sistema penitenziario italiano (sovraffollamento, violenze, disumanizzazione) si sommano a quelle di genere. Dietro a quelle sbarre in cui, ce lo ha raccontato poche settimane fa il rapporto dell’associazione Antigone che le ha attraversate, essere donna è una doppia condanna.

Katya Maugeri e le donne a cui dà voce, non solo le detenute ma anche chi, a quelle stesse detenute, cerca di dare prospettive e futuri diversi, ci portano dentro all’istituto, alle cui porte, dice l’autrice “si ferma la nostra umanità”.

Noi non ne conosciamo gli odori. Odori acri, sgradevoli, “che non scorderai mai”. Non ne conosciamo i rumori. Quello delle chiavi, “di ottone, pesanti, che tutte le mattine alle cinque e mezza e la sera alle otto senti girare per tre volte”, di cui resta l’eco in fondo al cuore. Delle grida. Dei “silenzi di dolore, di rispetto” di fronte a chi quell’istituto, e quello che c’è fuori, ha deciso di lasciare per sempre. Non ne conosciamo la luce. Quella artificiale, che non ti scalda la pelle. Che non importa se è giorno o notte, tanto dentro il tempo non esiste.

Questo coro di voci che si intrecciano ci racconta un non-luogo, in un non-tempo in cui le donne “ hanno la percezione di essere considerate in maniera negativa dalla propria famiglia e dal contesto esterno, quindi hanno il timore di perdere valore come ‘donna’ e, di conseguenza, tende a diminuire anche la loro autostima”. Ci racconta cosa significhi temere di non avere accesso al diritto alla salute, come le ingiustizie si assommino sulle pelli che non sono bianche, come i problemi di salute mentale e di autolesionismo siano una vera e propria epidemia silenziosa che trova sollievo solo nel “carrello della felicità” che ogni giorno, più volte al giorno, distribuisce una quiete anestetizzata e artificiale.

Ma ci racconta anche dei figli di queste donne: figli delusi, figli mai dimenticati, figli che dietro quelle sbarre devono vivere in attesa di una legge che non arriva. Un tema, quello della responsabilità genitoriale in carcere, che viene approfondito nell’appendice a cura di Sandro Libianchi, Patrizia Di Cintio e Marco Patarnello, non solo nell’ottica del rapporto madre-figlio, su cui solitamente si schiaccia la narrazione, ma anche rispetto alla figura del padre, “rivestito del ruolo fondamentale di caregiver nella triade madre-figlio-padre”.

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