Diritti

Mamme, bambini e carcere: cosa sta succedendo?

Il Pd ha ritirato la proposta di legge relativa alle detenute madri, ma la Lega ha presentato un nuovo ddl affinché la maternità non sia «un passepartout» per le borseggiatrici abituali e professionali
Chiara Manetti
Chiara Manetti giornalista
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24 marzo 2023 Aggiornato alle 18:00

All’inizio dell’anno le donne madri detenute in Italia erano 15, con 17 bambini al seguito. I dati aggiornati al 28 febbraio 2023 hanno mostrato numeri in salita, con 21 recluse e 17 bimbi con sé. E pare che la tendenza sia confermata anche dalle nuove cifre diffuse dal Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, citate da Ansa: 23 mamme recluse, 26 piccoli rinchiusi. Si tratta di dati tornati sotto i riflettori in seguito a una polemica scoppiata tra Partito democratico, Lega e Fratelli d’Italia.

Per contestualizzarla, facciamo un passo indietro: era (simbolicamente) l’8 marzo 2001 quando la legge Misure alternative alla detenzione a tutela del rapporto tra detenute e figli minori entrò in vigore, introducendo la “detenzione domiciliare speciale” anche per le detenute madri responsabili di reati che prevedevano una pena detentiva: consentiva loro di non portare i bambini con sé in carcere e di scontare la pena ai domiciliari per stare vicino ai figli più piccoli dei 10 anni. Ma il rischio di recidiva e la mancanza di una dimora stabile e adeguata alla cura dei bambini non erano stati un grande impulso per i magistrati incaricati di disporre questa misura.

Il 20 maggio del 2011 entrò in vigore un provvedimento che modificò la legge del 1975, che per prima aveva affrontato il tema delle donne incinte e delle madri di figli piccoli detenute: la nuova norma istituì le “case famiglia protette”, affidate ai servizi sociali e agli enti locali, e gli Icam, Istituti a Custodia Attenuata per Madri, che fanno capo all’amministrazione penitenziaria. “Carceri colorate, senza sbarre, né armi, né uniformi, nelle quali i figli delle detenute possono rimanere fino ai sei anni, non più i tre previsti dalla precedente normativa”, spiega l’Associazione Antigone nell’ultimo report incentrato sulla condizione delle donne in carcere. In breve: le detenute madri con figli fino a 3 o 10 anni possono scontare la pena in case famiglia protette, nel primo caso nelle sezioni nido e nel secondo negli Icam.

Ora torniamo a noi: la legge che ha riacceso le polemiche su questa realtà proviene dalla scorsa legislatura ed era stata approvata dalla Camera, per poi rimanere bloccata al Senato quando era caduto il governo Draghi. La Legge Siani, dal nome del suo primo firmatario, l’ex deputato del Pd Paolo Siani, prevedeva la possibilità per una madre con bambini fino a 10 anni di scontare la pena ai domiciliari, pur mantenendo la possibilità che i piccoli venissero reclusi negli Icam insieme alle detenute per via di “esigenze cautelari di particolare rilevanza” e proponeva l’eliminazione dei nidi nelle sezioni femminili.

La proposta è stata portata avanti dalla capogruppo del Partito Democratico alla Camera Debora Serracchiani, che con 4 articoli prevedeva la possibilità di far finanziare dallo Stato (e non più dagli enti del terzo settore, che si poggiano su donazioni e raccolte fondi) la costruzione delle case famiglia protette (oggi 2, una a Milano e una a Roma). Inoltre ampliava la tutela dei figli minori attraverso l’esclusione del ricorso al carcere e la valorizzazione degli Icam.

L’8 marzo il testo è stato bloccato da una serie di emendamenti avanzati da Fratelli d’Italia (che prevedono il carcere per le madri in caso di recidiva e cancellano il differimento della pena per le donne incinte o con un figlio che abbia meno di 1 anno), oggi ritirato: «Non vogliamo avere nulla a che fare con delle posizioni che troviamo incivili», ha detto Serracchiani ai giornalisti fuori da Montecitorio.

Dopo che il Pd ha ritirato le firme, la Lega ha prima celebrato l’evento, poi ha depositato una nuova proposta per cui non è previsto automaticamente il differimento della pena per le donne incinte così come prevede l’articolo 146 del codice penale. «Un principio teoricamente condivisibile ma che si scontra nei fatti con una realtà ben diversa, di grave nocumento sociale e rilevante sul piano della sicurezza», hanno spiegato i parlamentari della Lega Jacopo Morrone e Ingrid Bisa, entrambi nella commissione Giustizia alla Camera.

«È ormai consueta, infatti, la presenza di borseggiatrici professionali che si muovono indisturbate nelle stazioni ferroviarie, nelle metropolitane e sulle linee del trasporto pubblico sottraendo ai passeggeri presi di mira beni personali, portafogli, denaro e documenti». Secondo i leghisti, «essere incinta e/o madre di bambini piccoli non può essere il passepartout per le borseggiatrici abituali e professionali per evitare il carcere e continuare a delinquere».

Secondo Antigone, la Lega “introduce l’aspetto della recidiva quale criterio escludente per l’accesso a questa misura”, in riferimento alla proposta di Serracchiani. L’associazione, che dalla fine degli anni ‘80 si occupa dei diritti e delle garanzie nel sistema penale, spiega che “questo significa non tenere conto delle difficoltà del sistema penitenziario italiano nel costruire percorsi di risocializzazione che consentano alle persone di costruirsi una vita diversa”.

Nel caso delle donne, poi, “la recidiva ci mostra come questa non caratterizzi affatto crimini di peso o di allarme sociale, bensì uno stile di vita legato alla piccola e piccolissima criminalità da strada, legata all’esclusione sociale, alla povertà economica, alla tossicodipendenza. “. Per la Lega, conclude Antigone, “non è un problema che questi bambini crescano in carcere”.

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