Diritti

Carceri: in Italia è boom di suicidi

La Penisola, dove sono detenute oltre 50.000 persone, è al 10° posto tra i Paesi con il più alto tasso di suicidi in carcere. Qui l’incidenza è 16 volte superiore rispetto a fuori le sbarre
Il murale "Visit" realizzato nell'ambito del progetto "Un orizzonte di libertà" nel carcere di Glina, in Croazia
Il murale "Visit" realizzato nell'ambito del progetto "Un orizzonte di libertà" nel carcere di Glina, in Croazia Credit: Artista: Melinda Sefcic. Foto: Ivo Kosanovic

C’è una parte di umanità dimenticata.

Nei proclami politici (a meno che non si gridi all’emergenza invocando il pugno duro), nei discorsi da bar (a meno che non si richieda di gettarli dentro e buttare via la chiave), persino nel grande circo mediatico e digitale, una parte della popolazione continua a restare al margine, rinchiusa – mai come in questo caso la parola è adatta – in una realtà diversa e lontana da quella che ogni giorno condividiamo: i detenuti.

Eppure, nelle carceri italiane ci sono oltre 50.000 persone – 54.134 al 31 dicembre dello scorso anno, secondo l’Istat – l’equivalente degli abitanti di un comune come quello di Siena, giusto per rendere l’idea.

Sono tante, tantissime persone che vivono in situazioni spesso al limite dell’umanità e condizioni igienico-sanitarie precarie, senza supporto psichiatrico o psicologico.

Per questo colpisce ma non sorprende il tasso straordinariamente elevato di suicidi tra i detenuti, in particolare nella fascia d’età compresa tra i 20 e 30 anni.

Sono già 59 dall’inizio dell’anno, 1 ogni 4 giorni. Morti che era possibile prevenire, ma che continuano a verificarsi, una dopo l’altra, nel silenzio colpevole che accompagna anche questa campagna elettorale.

L’Italia – che con 0,67 casi di suicidi ogni 10.000 abitanti ha uno dei tassi minori d’Europa – è al 10° posto tra i Paesi con il più alto tasso di suicidi in carcere, dove l’incidenza del suicidio è 16 volte più alta che fuori.

Numeri che, se guardiamo al dossier “Morti di Carcere” di Ristretti Orizzonti, si sono registrati in passato solo nel 2010 e nel 2011, anni caratterizzati da un forte sovraffollamento penitenziario.

Le lunghe estati caldissime delle carceri sovraffollate

Le persone nelle carceri italiane, infatti, non sono solo tante, sono troppe. Almeno rispetto al numero dei posti disponibili.

Prima della pandemia, l’Italia era, dopo Cipro, il Paese europeo con le strutture carcerarie più sovraffollate, con un tasso di quasi 120 detenuti ogni 100 posti. La pandemia ha dimostrato l’insostenibilità del sovraffollamento e obbligato governo e istituzione carcerarie ad agire rapidamente.

Tra febbraio e aprile 2020 il tasso di occupazione delle carceri italiane è sceso a 106,9%, oltre 13 punti percentuali in meno rispetto a 2 mesi prima.

Con la fine dell’emergenza, però, i numeri sono tornati a salire, con numeri compresi tra 105 e 108 per tutti i mesi successivi.

A maggio 2022, c’erano 107,7 detenuti ogni 100 posti. In Germania, giusto per avere un riferimento, i detenuti erano 69 ogni 100 posti già prima della pandemia, in Spagna poco meno di 78.

Non solo: secondo l’Associazione Antigone, il dato ufficiale sarebbe incorretto e il tasso sarebbe addirittura più alto: «Se si analizzano però tutte le schede trasparenza dei 190 istituti penitenziari italiani, pubblicate dal ministero della Giustizia, cosa che abbiamo fatto nel corso di luglio del 2022, si scopre che nei vari istituti sul territorio nazionale ci sono al momento ben 3.665 posti non disponibili. La capienza effettiva dunque scende a 47.235 posti, e il sovraffollamento effettivo sale al 112%».

Con il caldo, la situazione negli istituti detentivi italiani diventa insopportabile, come ha denunciato il rapporto dell’Associazione intitolato La Calda estate delle carceri:

«Gli osservatori hanno rilevato che in quasi un terzo (31%) degli istituti ci sono celle in cui non sono garantiti neppure i 3 metri quadri calpestabili per persona.

Al sovraffollamento, che non aiuta di per sé a combattere il caldo, si aggiunge anche il fatto che nel 58% delle celle non ci sia la doccia per cercare un po’ di refrigerio (anche se il regolamento penitenziario del 2000 prevedeva che ci fossero docce in ogni camera di pernottamento entro il 20 settembre 2005). Infine nel 44,4% degli istituti ci sono celle con schermature alle finestre che impediscono il passaggio di aria».

Si scrive dentro, si legge soli

Ma il sovraffollamento – per cui l’Italia è stata condannata dalla Corte europea dei diritti dell’uomo già nel 2013 – non è che una parte della storia.

La lotta al Covid-19, infatti, non ha portato a mettere in campo solo misure deflattive per ridurre il numero dei detenuti, ma anche – e questo è l’aspetto più critico – misure restrittive per limitare i contatti con l’esterno, che si sono tradotte nella sospensione dei colloqui e degli ingressi esterni di persone con cui i detenuti svolgevano attività lavorative, educative, formative e ricreative.

Attività fondamentali per il benessere e, soprattutto, il reinserimento di chi sconta una pena detentiva e che sono state eliminate attraverso una gestione emergenziale e non sistemica – come ha denunciato un altro rapporto dell’Associazione Antigone – e che, di fatto, ha contribuito al peggioramento delle condizioni di vita dei carcerati.

Anche in condizioni normali, del resto, i contatti della maggior parte dei detenuti con l’esterno sono ridotti al minimo: la legge, ormai risalente al 1975, fissa in una chiamata settimanale della durata di 10 minuti il massimo dei contatti telefonici, che in mancanza d mi autorizzazioni specifiche possono essere solo con congiunti o conviventi.

Chi sono i violenti?

Le legittime proteste di chi chiedeva di vedere rispettati i propri diritti e tutelata la propria dignità, oltretutto in un momento in cui la paura imperversava strisciante, però, sono state denunciate a gran voce, e subito dimenticate.

Come dimenticate in brevissimo tempo sono state le gravissime violenze e violazioni dei diritti umani a opera delle guardie carcerarie in risposta a quelle rivolte: il caso della “macelleria messicana” nella prigione di Santa Maria Capua Vetere, una delle pagine più buie degli ultimi anni, ha occupato le pagine dei giornali per qualche giorno per poi essere reclusa in trafiletti sempre più piccoli.

Non prima, però, che il personale penitenziario responsabile di violenze e pestaggi incassasse la solidarietà di Matteo Salvini, che in visita al carcere si è schierato a fianco della polizia attaccando i detenuti: «La mattanza? Lo è stata anche la loro rivolta».

La verità è che violenze e soprusi si consumano tra le mura delle carceri molto più spesso di quanto vorremmo ammettere e saltano agli onori della cronaca solo quando è impossibile metterle a tacere.

In cella, anche mamme e bambini

Ma non finisce qui. In carcere finisce anche chi, per legge, non dovrebbe: dietro le sbarre, infatti, ci sono anche donne incinta e neonati.

Sebbene la giurisprudenza garantisca a gestanti e madri con figli piccoli misure detentive alternative al carcere, al momento 19 bambini vivono all’interno di istituti detentivi, mentre a Milano la Procura obbliga donne in gravidanza e neonati a entrare in carcere.

L’ordinanza, entrata in vigore il 30 maggio, prevede un “passaggio” – di solito non più di 24 ore – all’interno delle strutture carcerarie, dove mancano servizi ginecologici e medici.

Già una ragazza ha abortito durante la detenzione a San Vittore.

Ironicamente, lo stesso 30 maggio era arrivato il sì della Camera alla pdl Siani per dire stop ai bambini detenuti assieme alle madri recluse, cui lo scioglimento delle Camere impedirà di arrivare in Senato. Piccoli minori di 6 anni resteranno reclusi assieme alle loro madri; intanto, donne incinte o con figli continuano a mettersi in coda per entrare in carcere a Milano, rischiando la propria salute. Sono piccoli numeri, ma questo basta per giustificare una scarsa attenzione?

La campagna elettorale tace, le detenute no

L’amministrazione penitenziaria viene considerato un problema di nicchia, o un non problema, per questo nessuno parla ai detenuti o alle loro famiglie. Nemmeno in campagna elettorale: nei programmi per le elezioni del 25 settembre, alla voce giustizia si trova poco o niente sul carcere, un argomento che politicamente non ha presa e, anzi, rischia di far perdere consensi.

«Il vero crimine è stare con le mani in mano». Per questo, e per denunciare le morti silenziose che si consumano nel chiuso delle celle, le detenute del carcere “Le Vallette” di Torino hanno iniziato uno sciopero della fame per «esprimere solidarietà per tutti coloro che sono morti suicidi, soli dentro una cella bollente. Ognuna di noi aderendo a questa iniziativa non violenta vuole esprimere lo sdegno e il dissenso per il menefreghismo di una certa politica e delle istituzioni. Per noi e per tutti i reclusi la “cattività” in cui ci vorreste tenere a vita è inaccettabile. Mentre voi non ci nominate, noi vi accompagniamo fino al giorno delle elezioni, poi dopo si aprirà l’ennesimo capitolo… ci negate una riforma da anni… Ciò nonostante noi non ci zittiamo! Chiediamo il supporto e la solidarietà di tutti coloro che si occupano di diritti di far arrivare le nostre voci ovunque. Serva! Le voci nostre e dei compagni che non ce l’hanno fatta!».

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