Ambiente

Agricoltura, ti stiamo tutelando davvero?

In prima linea contro il cambiamento climatico, gli agricoltori sono al tempo stesso le prime vittime dei disastri ambientali. Te ne parliamo nella Giornata Mondiale della Lotta Contadina
Credit: Erik
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17 aprile 2023 Aggiornato alle 14:00

Quando il 17 aprile 1996 il Movimento dei lavoratori senza terra occuparono l’autostrada PA-150, la lotta al cambiamento climatico non era ancora entrata nell’agenda dei Governi di tutto il mondo. Ciononostante, 3.000 famiglie si radunarono e occuparono lo snodo autostradale presso Eldorado do Carajas (stato di Parà) per protestare e chiedere la ridistribuzione degli ettari di un noto ranch, la privata fazenda Macaxeira. Un terreno improduttivo per l’azienda, ma vitale per la sopravvivenza della comunità contadina.

La carneficina ordinata dal segretario di Stato del Brasile post dittatura, Paulo Sette Câmara, fece scorrere il loro sangue sull’asfalto dello Stato di Parà. La polizia militare aprì il fuoco contro la folla, uccidendo sul colpo 19 persone mentre due feriti spirarono in seguito a causa delle ferite.

La strage causò uno scandalo che portò la comunità internazionale a prendere misure di supporto ai movimenti contadini e alle aree rurali nel mondo.

Fino alla carta Dichiarazione dei diritti degli abitanti e lavoratori delle aree rurali, approvata il 17 dicembre 2018 dall’Assemblea delle Nazioni Unite.

Oggi però la reale applicazione della Dichiarazione resta ancora tutta da verificare e i cambiamenti climatici stanno complicando la situazione.

Da una parte i fenomeni ormai non più eccezionali come cicloni, tempeste, grandine e alluvioni possono distruggere ettari di prodotto nel giro di pochi giorni, se non di poche ore. Dall’altra l’aumento delle temperature agisce in modo più silenzioso, ma comunque letale, sulle colture: sia permettendo il dilagare di fitopatologie proprie di climi più caldi (contro cui le colture autoctone non sanno opporre resistenza) sia con il progressivo impoverimento del terreno e prosciugamento delle riserve idriche.

Basta pensare che solo in Italia, e solo nel 2022, il caldo anomalo con conseguente calo del 10% della produzione agricola ha innescato una perdita economica per almeno 6 miliardi di euro, secondo Coldiretti. E se l’Europa inizia a rendersi conto ora della portata drammatica dei cambiamenti climatici sull’agricoltura, altre aree del mondo stanno combattendo questa guerra da diverso tempo.

Il cambiamento climatico, inoltre, gioca un ruolo fondamentale nel conflitto tra i grandi gruppi e i piccoli contadini: il Programma di Sviluppo delle Nazioni Unite (Unep) ha stimato nel 2022 infatti che il 95% della produzione agricola africana dipende dalle precipitazioni atmosferiche.

Niente pioggia, niente colture e un raccolto scarso o nullo porta non solo alla fame, ma anche a sempre più frequenti episodi di abbandono della terra. Che viene acquistata o affittata dai Governi, spesso senza consultare le popolazioni locali, a prezzi ridicoli.

È quello che si è verificato quando, nel 2011, i contadini di Nacala si sono opposti alla trasformazioni di 14 milioni di ettari in agricoltura intensiva per l’esportazione della soia. Il progetto, sostenuto dal Governo e parte del programma nazionale ProSavana, vedeva la partecipazione di produttori del Mato Grosso e investitori giapponesi, ma con la mobilitazione dei contadini e della società civile è sostanzialmente naufragato dopo sette anni.

In Uganda a partire dagli anni ‘90 gli abitanti della riserva di Bukalena si sono trovati a dover lottare per conservare i terreni che hanno coltivato per decenni, e che il Governo ha cercato di destinare alla coltivazione di legna per esportazione. A guadagnare su questo progetto era la compagnia norvegese Green Resources.

Non è chiaro se la compagnia sia o meno coinvolta nell’uso della forza che diversi membri dell’agenzia forestale nazionale (Nfa) ha utilizzato per spingere i contadini a lasciare i territori, 8.000 ettari tolti all’agricoltura di sussistenza per essere devoluti alla coltivazione di specie non autoctone come pini ed eucalipti.

Le giustificazioni delle multinazionali – creare nuovi posti di lavoro, costruire infrastrutture, coltivare specie per abbattere la produzione di CO2 – riecheggiano quelle ideologiche della Rivoluzione Verde del secolo scorso, che già nei primi anni ‘70 mostrò tutta la sua fragilità etica.

Un altro tasto dolente riguardo i diritti dei contadini è quello che concerne le comunità agricole sottoposte a regimi di occupazione, colonizzazione o che operano in aree di guerra o di alta tensione. Succede ai contadini dei villaggi di Masafer Yatta, Tuba e altri borghi della Cisgiordania, a esempio, dove le continue incursioni e i vandalismi quotidiani dei coloni hanno lo scopo di distruggere le colture e allontanare gli agricoltori e i pastori dai territori.

Una situazione in contrasto con gli articoli 17 e 18 della Dichiarazione citata all’inizio dell’articolo.

D’altra parte le sempre peggiori rese dei raccolti e gli eventi climatici estremi spingono sempre più contadini di fronte a un bivio: da una parte resistere, lottando però con danni sempre maggiori causati dai disastri climatici; dall’altra arrendersi e procedere all’introduzione di colture di vasta scala, o cedere le proprietà alle multinazionali o alle grandi imprese locali, spostandosi altrove in cerca di migliori opportunità.

Ci sono però degli spiragli positivi. Se è chiaro che un sistema economico che avvantaggia le multinazionali finisce, in un modo o nell’altro, per danneggiare i contadini, esistono però reti di commercio equo che sembrano permettere uno sviluppo sia economico che ecologico più in linea non solo con la Dichiarazione del 2018, ma anche con gli obiettivi dell’Agenda 2030.

Si tratta di filiere che hanno avuto, tra l’altro, il vantaggio di resistere con meno scossoni al generale rallentamento dell’economia globale causato dalla pandemia.

Secondo uno studio della Fao del 2022, le aziende eque certificate hanno un voto di 9 punti percentuali più alto rispetto ai loro competitor non equi (64 contro 55).

Inoltre, contribuiscono positivamente sull’indicatore di impatto sociale con una percentuale più alta del 18% rispetto alla controparte.

Se infatti in un sistema multinazionale è la sede centrale (spesso in un Paese occidentale) a trattenere buona parte degli introiti, nel sistema equo un’ottima percentuale del ricavato resta nei luoghi di produzione; contribuendo così non solo alla sicurezza dei lavoratori diretti della filiera, ma anche delle loro famiglie e delle loro comunità.

Per citare alcune delle colture coinvolte da questo sistema virtuoso: la filiera dell’ibisco equo ha segnato il più alto punteggio di resistenza rispetto alla media non fairtrade, il 70%; la filiera indonesiana del caffè equo ha registrato invece il 67% e quella delle banane peruviane il 53%. Rispetto alle filiere non certificate fair-trade, quelle eque registrano un punteggio di resilienza superiore del 13%.

Quale che sarà il futuro di queste battaglie, una cosa è certa: la guerra per l’accesso alle risorse e alla terra ha un nemico in comune con le battaglie per l’ambiente e l’ecosistema. Si chiama cambiamento climatico. Ed è impossibile pensare a un sostegno ai contadini e alle comunità rurali e agricole senza metterlo in conto.

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