Economia

Ritorno al baby pensionamento? Il 10,3% è per under 59

Il 17,4% delle 17.718.685 pensioni (al 1 gennaio 2023) è destinato agli under 64, mentre oltre il 25% per assegni di vecchiaia agli under 70. Chi ne risentirà saranno le nuove generazioni
Marina Calderone, ministra del lavoro e delle politiche sociali
Marina Calderone, ministra del lavoro e delle politiche sociali Credit: ANSA/RICCARDO ANTIMIANI
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18 aprile 2023 Aggiornato alle 10:30

In Italia abbiamo un problema con le pensioni e si tratta di un problema puramente aritmetico.

Il nostro sistema pensionistico si basa su un sistema contributivo a riparazione e, dunque, prevede che una parte dello stipendio dei lavoratori vada a pagare gli assegni pensionistici di chi non lavora più. È evidente come questo sistema sia destinato a bilanciarsi da solo laddove ci sia un costante e continuo ricambio generazionale.

Ed ecco il problema: nel nostro Paese il numero di pensionati è decisamente maggiore del numero di lavoratori. Secondo l’Inps, un giovane di 25 anni che ha iniziato a lavorare da almeno 12 mesi potrà accedere alla pensione anticipata a 70 anni e quella di vecchiaia a 70 anni e 6 mesi, superando, quindi, i 45 anni di contributi.

Oggi le uscite anticipate in Italia sono regolate dalla legge Fornero (pensionamento con 42 anni e 10 mesi di contributi, che diventa 41 + 10 per le donne) e che dal prossimo anno vedrà l’aggiunta di una soglia anagrafica che, stando a quota 103, dovrebbe essere pari ai 62 anni di età con 41 di contributi.

Durante la campagna elettorale, il Governo Meloni si è battuto apertamente riguardo l’importanza di riformare il sistema pensionistico nazionale, per identificare un sistema più “flessibile” e capace di soddisfare più interessi. Con il passare dei mesi, però, sono sopraggiunte nuove priorità e la tanto attesa riforma pensionistica si è allontanata al punto da non comparire all’interno del Def (Documento di Economia e Finanza).

Tuttavia, rimane un punto di grande interesse per il Governo e lo dimostra l’inserimento della materia nei 21 collegati alla manovra come disegno di legge sull’introduzione di “Interventi in materia di disciplina pensionistica”.

Intanto la Ministra del Lavoro, Marina Calderone, ha annunciato la creazione di un Osservatorio per il Monitoraggio Previdenziale: un istituto ad hoc con il compito di esaminare i dati e identificare lo spazio e le possibilità di manovra del Governo. Quest’ultimo sembra, invece, allontanarsi sempre di più dalla versione originale della riforma Quota 41, per la quale si è battuto enormemente il leader della Lega Matteo Salvini e che prevedeva il pensionamento a 41 anni di contributi senza al alcun limite di età. Un range piuttosto ampio e difficilmente sostenibile per le tasche dello Stato.

Infatti, nonostante il Governo sia passato da Quota 102 a Quota 103 e le limitazione inserite in Opzione Donna, i costi continuano a salire. Complice è anche l’inflazione che ha rimpolpato gli assegni pensionistici, i quali durante lo scorso anno hanno visto un incremento del 7,3%.

Nel 2022 la spesa per le pensioni è stata di 298,9 miliardi di euro. Secondo le stime Inps, nel 2023 raggiungerà i 317,9 miliardi, 340,7 miliardi nel 2024 e potrebbe sfiorare i 351 miliardi nel 2025. In termini percentuali, questo implica un impatto sul Pil del 16,2% per l’anno in corso e che, tra 10 anni, potrebbe arrivare al 17,4%.

Una spesa che, inevitabilmente, risente di un passato all’insegna dei baby pensionamenti: nel 1973 il Governo Rumor diede la possibilità alle dipendenti pubblici con figli di andare in pensione dopo 14 anni, 6 mesi e 1 giorno di contributi versati e, analogamente, ai dipendenti pubblici di sesso maschile di accedere agli assegni pensionistici dopo 19 anni, 6 mesi e 1 giorno.

Il risultato di queste politiche, evidenziato da Pasquale Tridico e Enrico Marro nel libro Il lavoro di oggi la Pensione di domani (Solferino, 208 pagine, 16 euro), lo vediamo (e paghiamo) ancora oggi: circa 185.000 baby pensionati, che hanno smesso di contribuire al reddito del Paese poco più che 40enni e che hanno generato un costo totale di 2,9 miliardi di euro l’anno.

Oggi non siamo sulla stessa barca, ma c’è un però: le decisioni passate continuano a pesare e l’età media dei pensionati non è, poi, così alta. Al 1 gennaio 2023 le pensioni vigenti, secondo l’Inps, erano 17.718.685 di cui il 78% previdenziale (ovvero derivante dai contributi lavorativi) e il 22,8% assistenziale (riconosciuta per una situazione di invalidità o di disagio economico). Di questi 17 milioni il 17,4% era destinato a under 64 (1 su 6) e il 10,3% (compresi invalidi civili) apparteneva a under 59, mentre gli assegni di vecchiaia destinati a soggetti con meno di 70 anni superava il 25%. Nel 2023 l’età media dei pensionati è di 74,1 anni, con un’età media per le donne di 76,2 e degli uomini di 71,5, mentre l’età media di accesso alla pensione è di 64,4 anni (un +0,1 rispetto al 2021, quando si attestava a 64,3).

Un problema che, dunque, continua a pesare sulle casse dello Stato e che necessita una risposta adeguata. Siamo di fronte a un sistema previdenziale traballante a causa di un forte squilibrio tra lavoratori e pensionati, un equazione che forse necessità di essere riallineata garantendo l’uscita pensionistica a chi la necessita veramente.

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