«L’educazione è la chiave per salvaguardare i diritti di donne e bambine»
Nel 2022 circa 91 milioni di donne vivono in uno dei 23 Paesi in cui l’aborto è proibito in qualsiasi circostanza. Le bambine e le ragazze che hanno subito mutilazioni genitali femminili sono 200 milioni. Quelle che si sposano prima dei 18 anni sono 12 milioni: significa 23 ogni minuto che passa.
Sono solo alcuni dei dati che emergono dall’Atlante “We care”, realizzato da WeWorld per misurare la giustizia sessuale e riproduttiva in Italia e nel mondo. L’organizzazione italiana, impegnata da 50 anni a garantire i diritti di donne e bambini in 27 Paesi, compresa l’Italia, ha racchiuso in un centinaio di pagine le principali negazioni di diritti e discriminazioni che una parte della popolazione mondiale deve ancora subire nel mondo: donne, bambine, bambini e adolescenti.
Abbiamo intervistato Martina Albini, coordinatrice advocacy nazionale e Centro Studi di WeWorld, che ci ha raccontato i punti cruciali di una ricerca che ha richiesto tra i 6 e i 7 mesi di lavoro e al suo interno raccoglie tante buone pratiche e racconti dai programmi di WeWorld sul campo.
Da dove nasce l’esigenza di realizzare l’Atlante “We Care” sulla salute riproduttiva, materna, infantile e adolescenziale nel mondo?
Innanzitutto, WeWorld è un’organizzazione che interviene soprattutto in contesti umanitari di emergenza, ma anche di sviluppo, e lo fa in diverse aree. Avevamo già tutta una serie di esperienze relative a come trattare la salute, in particolare di donne e bambini, e questo proprio perché la mission della nostra organizzazione è quella di intervenire laddove vi sono violazioni dei diritti di donne e bambini.
Con i 2, quasi 3 anni di pandemia, ci siamo resi conto che, nonostante si parlasse così tanto di salute, in realtà si parlava soltanto di certe questioni di salute, e tutto il resto è stato trascurato. Soprattutto quella parte di diritti e di questioni sanitarie che riguardano le categorie notoriamente più vulnerabili, che sono donne e bambini. Non lo sono non di natura, ma perché inseriti in contesti - chiaramente cambiano molto a seconda del nord e del sud globale, a seconda del Paese - profondamente patriarcali e discriminatori in cui persistono una serie di disuguaglianze di genere intergenerazionali. L’altra necessità era quella di andare a valutare un concetto forse un po’ nuovo, quello di giustizia sessuale e riproduttiva.
È questo il tema centrale della vostra ricerca?
Sì, perché ci siamo resi conto che quando si parla di diritti sessuali e riproduttivi non ci limitiamo solo a quelli, ma consideriamo anche la mancanza di accesso all’informazione, alla libertà di scelta e di espressione, all’educazione, a tutta una serie di diritti fondamentali che derivano – e a loro volta sono influenzati – dai diritti sessuali e riproduttivi. Il concetto di giustizia sessuale e riproduttiva deve essere la base da cui partire, da cui si apre un mondo di altri diritti, libertà e violazioni di quelle libertà.
E questo va a indirizzare le politiche di intervento che non possono più essere a compartimenti stagni: quando si interviene con politiche sanitarie, bisogna ricordarsi di tenere conto di tantissimi altri aspetti, a partire dalle disuguaglianze. Per esempio, in molti Paesi il fatto che le bambine e le ragazze non abbiano accesso a prodotti mestruali come assorbenti, tamponi o altro, fa sì che molte di loro non vadano a scuola, perché mancano quelle pratiche di igiene essenziali che permetterebbero loro di vivere pienamente l’esperienza educativa. È qui che si apre il concetto di giustizia sessuale riproduttiva.
Che definizione darebbe alla giustizia sessuale e riproduttiva?
È un concetto che fa un passo in più rispetto alla mera definizione di salute sessuale e riproduttiva, perché collega i diritti sessuali e riproduttivi agli altri diritti, riconoscendo che se andiamo ad agire su questi, parallelamente ne stiamo garantendo tantissimi altri. Prendiamo, per esempio, la questione dell’aborto in Italia: sappiamo che esiste l’obiezione di coscienza all’articolo 9 della 194. I professionisti sanitari, però, non possono negare informazioni alle donne, ma a molte vengono negate, e qui si configura una violazione della giustizia sessuale e riproduttiva: vengono, infatti, negati i diritti all’informazione e alla libertà di scelta. Faccio un altro esempio: in Italia, WeWorld ha dei programmi che si chiamano “Spazi donna”, dei centri di empowerment femminile e prevenzione della violenza divisi in 7 città italiane. Qui lavoriamo con donne che provengono da situazioni di forte disagio socioeconomico e culturale, e alcune di loro non sanno che esistono dei consultori pubblici in cui si possono recare gratuitamente e ricevere supporto. Si tratta di un altro caso in cui la giustizia sessuale e riproduttiva viene a mancare. Come lo è anche quello della violenza ostetrica.
L’educazione, in questo senso, ha un ruolo fondamentale anche nei diritti sessuali e riproduttivi?
L’educazione svolge un ruolo che può apparire paradossale: da una parte molto spesso viene negata proprio a causa di una mancata giustizia sessuale e riproduttiva, però al tempo stesso è la chiave per salvaguardare i diritti di donne e bambine e di conseguenza delle loro comunità. Per esempio, pensiamo alle scuole nei Paesi in povertà cronica o in difficoltà: spesso sono luoghi non sicuri, in cui possono avere origine alcune delle violazioni più preoccupanti come l’abuso sessuale, le gravidanze precoci, la diffusione dell’HIV.
Al tempo stesso, però, le scuole hanno un ruolo importantissimo nella prevenzione di questi fenomeni perché possono essere luoghi comunitari in cui i bambini trovano stabilità e sicurezza, e non solo apprendono quelle competenze più “cognitive”, ma imparano a socializzare. Qui gli si può parlare di tematiche come la violenza, l’abuso, le mutilazioni. Nei contesti di emergenza, e parlo delle bambine, la prima mestruazione spesso coincide con la fuoriuscita dai percorsi di educazione perché non ci sono servizi igienici adatti, molti istituti ancora oggi non hanno l’acqua. E se non c’è il sapone, se non ci sono i bagni divisi per sesso o privi delle porte, è chiaro che le bambine non si sentono protette. Il menarca, a livello sociale e culturale, coincide anche con il passaggio da bambina a donna, e in alcuni Paesi questo significa essere sottoposte alle mutilazioni genitali. Solo quando una donna l’ha subita, è considerata pronta per sposarsi. E quando una bambina si sposa, è probabile che venga allontanata dall’educazione. È un circolo vizioso che si alimenta.
Come si può intervenire in casi simili?
Noi lo facciamo in una maniera che magari può apparire un po’ controintuitiva: cerchiamo di inserire l’igiene mestruale anche laddove sembrerebbe non essere un intervento prioritario, anche in una classe a prevalenza maschile, per esempio. Perché in certe culture parlare di violenza, di mutilazioni, di parità di genere non è accettato, mentre lo è parlare di igiene mestruale, che è vista come una pratica più biologica, più meccanica, e non viene collegata ad altri temi di salute riproduttiva.
Il nostro intervento apre un mondo: spieghiamo loro che il corpo sta cambiando, che stanno crescendo, e si apre tutto il discorso dell’educazione sessuale, della parità, dei matrimoni precoci. Quindi si tratta sempre di trovare un equilibrio, di individuare il modo più corretto, in quel preciso contesto, di trattare l’argomento. L’igiene mestruale e la salute mestruale sono una porta di accesso ad altre tematiche.
In questo senso, avere un approccio aperto contemporaneamente a più settori di intervento, come la salute e l’educazione, è fondamentale specie nei contesti di emergenza e crisi protratte. È proprio per lavorare in questi contesti che la “Campagna Globale per l’Educazione”, di cui WeWorld è parte, sta chiedendo al governo italiano di impegnarsi a proteggere e promuovere il diritto all’educazione, attraverso un primo contributo di almeno 15 milioni di euro totali per i prossimi 4 anni al fondo globale delle Nazioni Unite Education cannot Wait.
A proposito di Italia, qui che ruolo ha l’educazione?
Abbiamo ancora un grande limite perché non esiste una legge sull’educazione sessuale: dal 1975 sono state depositate 16 proposte di legge, nessuna è mai passata, e quindi non abbiamo la possibilità di affrontare questi temi in maniera corretta. Ci sono delle linee guida a livello internazionale, le ultime sono dell’Unesco e risalgono al 2018, ma siamo uno dei pochi Paesi europei a non avere inserito obbligatoriamente un curriculum sull’educazione sessuale. E questo si vede: c’è poca conoscenza del funzionamento biologico del corpo, e questo traspare anche da tutte quelle relazioni distorte e spesso disfunzionali, che anche i giovani e gli adolescenti vivono.
Ci sono, naturalmente, delle scuole che affrontano questo tema, ma si tratta di interventi a macchia di leopardo e la tendenza, quando si parla di educazione sessuale, è di fermarsi al puro aspetto biologico. Bisognerebbe educare anche all’affettività, alle relazioni, alla parità di genere, alla violenza, al consenso. È stato dimostrato che nei Paesi in cui vi è un’educazione sessuale corretta e adeguata all’età, partendo appunto dalla prima infanzia, si riducono anche tantissimi fenomeni di violenza, perché si insegna ai bambini a riconoscere il rispetto del corpo degli altri e del proprio. Si tratta di temi su cui WeWorld insiste da tanto. Ne riparleremo anche a maggio, quando usciremo con il nostro indice “Mai più invisibili” sulla condizione di donne e bambini in Italia, un’analisi regionale di vari indicatori relativi all’inclusione di questa categoria.
Ci sono alcuni esempi di Paesi virtuosi a cui potremmo guardare?
In Francia ci sono curricula che vengono adattati a tutte le diverse fasce d’età, però tutti i Paesi - fatta eccezione per, appunto, Italia, Bulgaria, Cipro, Lituania, Polonia, Romania, che sappiamo essere di derivazione più conservatrice - hanno delle leggi che istituiscono obbligatoriamente l’educazione sessuale nei loro curricula. In Europa le esperienze positive sono numerose.
Ci sono delle zone del mondo, in particolare, in cui donne e bambine e bambini subiscono più discriminazioni a livello di diritti sessuali e riproduttivi?
Purtroppo sì, ed è qualcosa che avevamo già notato nel nostro rapporto internazionale WeWorld Index: l’area più colpita è l’Africa subsahariana, che tra tutti gli indicatori analizzati non ne ha uno positivo, dal tasso di natalità, altissimo, a quello di mortalità materna o infantile e neonatale. Per alcuni fenomeni specifici vi è magari una maggiore diffusione in altre aree, come per la selezione del sesso in base al genere (gli aborti, se non gli infanticidi, sono più alti quando si ha una femmina), che è molto più diffusa in Asia meridionale e in Asia Centro orientale. In generale, però, l’Africa subsahariana è la peggiore, per tutta una serie di ragioni. A partire dalle condizioni di povertà cronica che non permettono di concentrarsi su questi diritti.
I diritti riproduttivi e sessuali vanno in secondo piano rispetto ad altri?
Abbiamo deciso di concentrarci sulla giustizia sessuale e riproduttiva esattamente per questo motivo: su una scala di priorità, prima vengono tutta una serie di altre questioni, mentre la salute, sessuale e riproduttiva, e di conseguenza la giustizia, vengono sempre per ultime. Per esempio, non si pensa mai al fatto che una volta al mese le mestruazioni arriveranno, e nell’esigenza di gestire tante altre questioni, i diritti riproduttivi passano in secondo piano. Nelle situazioni di emergenza, come una calamità naturale o in casi di conflitto, non è scontato che nell’emergenza si pensi ai bisogni di donne e bambine. Per fare un esempio, nei kit che distribuiamo inseriamo sempre assorbenti: lo abbiamo fatto in Palestina, ma anche in tanti Paesi africani.
Uno dei grandi temi della vostra ricerca è, appunto, la salute mestruale. Citate anche la period equity (equità mestruale): di cosa si tratta?
L’accesso limitato o inadeguato ai prodotti mestruali o all’educazione alla salute mestruale a causa di vincoli finanziari, o stigmi socio-culturali negativi associati alle mestruazioni, può portare alla cosiddetta “povertà mestruale”. Basti pensare al tema della Tampon Tax, per cui anche WeWorld si è battuta tanto per arrivare all’obiettivo del 5% della tassazione. Molte persone non possono permettersi i prodotti mestruali, anche a prescindere dal fatto che la tassazione sia stata ridotta o meno, ma non si tratta di un tema legato esclusivamente alla questione economica. Il rischio, infatti, è che si finisca per ignorare come la gestione delle mestruazioni si rifletta su tante altre sfere della vita, non soltanto sull’aspetto economico, ma anche sulla partecipazione sociale.
Il dibattito è acceso perché c’è chi dice che segnerebbe un passo indietro per la parità di genere, perché aumenterebbe il divario retributivo, rafforzerebbe le disuguaglianze, andrebbe a presentare le donne come lavoratrici più costose. In questo contesto può intervenire anche il parere medico: sempre più studi ci dicono che vi è una tendenza a sminuire il dolore femminile, il che porta a disparità di trattamento da parte del personale sanitario, che tende a minimizzare quello percepito dalle donne.
Il concetto di gender pain gap (divario del dolore di genere), per esempio, è molto diffuso negli Stati Uniti, dove esiste ancora lo stereotipo per cui si crede che le donne, in particolare quelle nere o Bipoc, abbiano una soglia di dolore più alta. Questo ha un’incidenza anche nel modo in cui si fanno i triage in ospedale o viene sottovalutato un sintomo. Per non parlare di tutte le disuguaglianze che devono subire le persone appartenenti alla comunità Lgbtq+ per quanto riguarda la salute mestruale, ancora visto come un qualcosa di legato solo alle donne.
Ci sono dei progetti legati all’educazione sessuale a cui tenete particolarmente?
Siamo molto fieri del progetto #WithHer in Nicaragua, un Paese molto giovane dal punto di vista demografico, con il 45% della popolazione under 25, ma è anche uno dei Paesi in cui si registrano più casi di violenza sulle donne e sui minori. WeWorld interviene con la “Red de Albergues”, una rete di case rifugio in cui lavoriamo con donne che hanno subito violenza. Da una parte le supportiamo a fuoriuscire dalla violenza, dall’altro le accompagniamo a rompere il tabù sulle mestruazioni: le comunità indigene le considerano impure, allontanandole da qualsiasi attività quando hanno il ciclo. E allora noi le formiamo all’interno di atelier, affiancate da esperti, per realizzare delle mutande mestruali. Queste donne si rendono conto di potersi prendere cura di sé, anche economicamente parlando, dopo aver subito una violenza. In Mozambico, invece, abbiamo promosso l’empowerment femminile creando dei Comitati per organizzare la raccolta dell’acqua a cui partecipano anche le donne, che prima venivano escluse da ogni decisione sul tema e inviate a procacciare le risorse idriche. In questo modo diventa una rivincita personale per loro, perché si sentono utili per la comunità e si rendono conto che sono in grado anche di ispirare altre donne a vivere pienamente la loro vita.