Culture

Cosa fanno i sensitivity reader?

Sono figure abbastanza conosciute nel mondo anglosassone, ma meno in Italia, e si occupano di rilevare passaggi sensibili o potenzialmente offensivi nelle opere letterarie
Credit: Cottonbro Studio
Tempo di lettura 5 min lettura
10 aprile 2023 Aggiornato alle 08:00

“Scrivi ciò che conosci” recita il vecchio adagio nel quale si è imbattuto chiunque abbia frequentato almeno una volta una scuola di scrittura creativa. Il consiglio, che si dice risalire a Hemingway in persona, è sicuramente valido e approfondire scrupolosamente l’argomento di cui si intende parlare, sia pure in un’opera di fantasia, è necessario per offrire ai lettori una storia autentica e di qualità ed evitarsi qualche imbarazzo.

Questa pratica, che nel giornalismo si chiama fact-checking, è quella che sta alla base del lavoro dei sensitivity reader che in italiano potremmo tradurre con editor di sensibilità o di diversità, figure editoriale poco conosciute nel nostro Paese ma che nell’ultimo periodo hanno fatto molto parlare, soprattutto dopo il caso della nuova edizione rivista dei romanzi di Roal Dahl.

I sensitivity reader infatti sono lettori o lettrici specializzati su temi che se non trattati con la giusta dose di cura e informazione potrebbero creare disagi a determinati gruppi di persone, in particolare se appartenenti a comunità marginalizzate. Proprio come i classici editor cercano refusi ed errori di sintassi, i sensitivity reader cercano bias, rappresentazioni stereotipate o espressioni che potrebbero risultare offensive perché si basano o rafforzano pregiudizi o più semplicemente perché non sono accurate né verosimili.

Errori commessi per la maggior parte dei casi in buona fede (del resto spesso non siamo neppure consci dei nostri bias nel percepire la realtà che ci circonda) ma non per questo da sottovalutare, per una questione di giustizia e di inclusività, e perché nessuno debba leggere un libro e ritrovare tra le pagine rappresentazioni grottesche e mistificatrici del gruppo a cui appartiene, che potrebbero ferirlo o turbarlo.

Ma anche per evitare in inutili imbarazzi, sia per le case editrici sia per gli autori e autrici, come nel caso di American Dirt di Jeanine Cummins (in italiano Il sale della terra, Feltrinelli), una storia di migrazione dal Messico che ha fatto infuriare la comunità latina per le sue immagini stereotipate e la voce palesemente falsa della protagonista.

Cummins evidentemente non conosceva l’esperienza delle migliaia di persone che attraversano la famigerata frontiera ogni anno e avrebbe tratto non poco beneficio dal seguire il consiglio di Hemingway.

Il romanzo, nonostante abbia scalato le classifiche e sia stato perfino consigliato da Oprah Winfrey, ha ricevuto un’accoglienza così gelida da parte del pubblico latino che la casa editrice ha deciso di cancellare il tour promozionale.

I detrattori del lavoro dei sensitivity reader nell’editoria sono comunque moltissimi. L’obiezione più frequente è che una revisione alla ricerca di contenuti sensibili rappresenterebbe una forma di censura, un rischio alla libertà espressiva degli autori che si troverebbero costretti a cambiare i loro testi oppure sarebbero portati ad autocensurarsi, evitando del tutto determinati argomenti.

Questo inciderebbe sulla qualità della letteratura, con il rischio di produrre testi piatti e insulsi che, nel tentativo di andare bene a tutti, alla fine non piacerebbero a nessuno.

Secondo la giornalista Kat Rosenfield troppa attenzione agli argomenti ritenuti sensibili sacrificherebbe l’intrattenimento per l’autenticità. Indubbiamente quando leggiamo un’opera di fiction i dettagli reali ci interessano meno della solidità dell’intreccio e dei colpi di scena (altrimenti avremmo scelto un saggio e non un romanzo), ma se, come nel caso di American Dirt, i dettagli sono così inverosimili da inficiare la sospensione dell’incredulità anche l’intrattenimento ne risente.

Inoltre, raramente i sensitivity reader fanno una vera e propria operazione di riscrittura del testo ma si limitano a segnalare le parti più critiche e a suggerire modifiche che gli autori possono implementare oppure no. Spesso eventuali cambiamenti sono frutto di un dialogo che può portare chi scrive a rendersi conto dei propri pregiudizi innati e questo non può fare che bene.

Un’altra obiezione ha invece a che vedere con la scelta dei sensitivity reader da parte delle case editrici che spesso privilegiano persone che condividono la situazione di marginalità raccontata nella storia. I sensitivity reader sono quindi spesso, a esempio, afro discendenti, appartenente alla comunità Lgbtq+ o con disabilità.

La criticità segnalata è che una singola persona non può avere la responsabilità di parlare per tutta la comunità solo in base alla sua etnia, le caratteristiche fisiche, l’orientamento sessuale o l’identità di genere. Se questa è un’obiezione condivisibile, d’altro canto è altrettanto vero che chi è stato esposto in prima persona a razzismo, misoginia, abilismo o omofobia può essere comunque più in grado di cogliere passaggi problematici rispetto a chi non ne ha mai fatto esperienza.

In ogni caso avvalersi dei servizi dei sensitivity reader non significa produrre opere letterarie neutre, che non turbano o irritano nessuno, ma arricchire le fasi di ricerca e di raccolta di informazioni che sono necessarie per la scrittura di un buon libro.

E se un buon libro deve certamente rappresentare al meglio la realtà, può anche ambire a cambiarla. Del resto questo è stata per secoli una delle funzioni della grande letteratura. Noi siamo quello che leggiamo e se desideriamo davvero cambiare il mondo, renderlo più giusto e inclusivo, iniziare da ciò che leggiamo, e scriviamo, è un ottimo primo passo.

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