Culture

Ivana Lotito: «Il nostro lavoro non è mai stato considerato una professione»

Nella serie “Sei donne - Il mistero di Leila” interpreta la zia dell’adolescente scomparsa. Racconta alla Svolta come questo progetto tocchi temi delicati, legati al gender gap e alla violenza domestica. E non solo
Ivana Lotito, l'attrice che interpreta Michela in "Sei donne - Il mistero di Leila", la nuova fiction di Rai 1 (FOTO di Marco Onofri)
Ivana Lotito, l'attrice che interpreta Michela in "Sei donne - Il mistero di Leila", la nuova fiction di Rai 1 (FOTO di Marco Onofri)
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7 marzo 2023 Aggiornato alle 20:00

«Abbiamo voluto ideare e scrivere Sei donne – Il mistero di Leila con lintenzione di sviluppare un giallo che ruotasse intorno alla scomparsa di una ragazzina quindicenne, Leila, e di suo padre, certo, ma volevamo che questo giallo fosse anche loccasione per lo spettatore di fare un viaggio nelle storie di sei donne di oggi, cioè del 2023, in Italia, molto diverse tra loro», hanno dichiarato Ivan Cotroneo e Monica Rametta. «Prima di tutto il pubblico ministero che indaga sulla scomparsa, Anna (Maya Sansa), ma poi la zia della ragazza scomparsa, Michela (Ivana Lotito), la sua allenatrice di atletica leggera, Alessia (Denise Tantucci), la sua vicina di casa, Viola (Isabella Ferrari), la sua migliore amica, Aysha (Cristina Parku)».

Ciascuna delle sei donne, secondo Cotroneo e Rametta, «porta nella vicenda la sua storia personale, complicata, nascosta, passionale, porta la propria battaglia quotidiana, porta la sua resistenza in una società ancora misogina e patriarcale. Abbiamo voluto che fossero storie diverse, ma tutte legate da un filo: le loro storie raccontano di ragazze e donne nella nostra società». La serie in tre puntate, diretta da Vincenzo Marra, in onda il martedì su Rai1, tocca questioni molto calde e attuali. Ne abbiamo parlato con una delle protagoniste, Ivana Lotito, che sin da subito “gioca” con l’ambiguità. Nel percorso compiuto fino a ora, l’attrice ha spaziato molto nei progetti a cui ha preso parte, partendo da un amore per le tavole del palcoscenico. Oggi, nonostante la notorietà, afferma: «Sto ancora cercando di costruire un’identità e quindi di avere il mio peso specifico in quanto non credo di averlo ancora conquistato in maniera totale. Sicuramente faccio dei passi in avanti e quindi ogni passo è proporzionale a una richiesta leggermente maggiore, ma purtroppo il “sistema” non va sempre “liscio”». Lei è tra quelle persone che tiene alla crescita qualitativa tanto da pensare di valutare anche un progetto con un introito minore, ma che fa crescere come spessore professionale, oltre che umano - tenendo conto del suo essere molto riflessiva e sensibile.

In conferenza stampa si è parlato di “viaggi emotivi” delle varie donne, qual è quello della sua Michela?

Un viaggio vero la risoluzione di se stessa, andando a fondo rispetto a quelle che sono le cose rimaste incompiute e quelle che non ti fanno essere completamente sincera con te stessa. È anche un modo per cercare un’onestà e una verità attorno, quindi non si tratta di scoprire soltanto la verità sulla scomparsa di Leila, ma sono accomunate da una ricerca della verità, ognuna per quanto riguarda la propria vita. Emerge proprio il desiderio di mettere a fuoco per spogliare la realtà delle possibili menzogne. Nel mio caso, credo ci fosse un tormento dettato dalla morte di sua sorella e poi questa relazione torbida con il primario dell’ospedale in cui lavora, che le ha dato posto e, sentendosi pressata da questo ambiente lavorativo e anche un po’ in colpa, magari “sporca” della possibilità di aver avuto questo posto in maniera impropria… cerca di andare a fondo perché ha bisogno anche di restituire una dignità al suo percorso.

Quello del pregiudizio è un fenomeno davvero molto comune che può provocare anche dei danni feroci sulle vite delle persone. È molto facile additare e giudicare senza sapere come stanno le cose perché può essere, in diverse circostanze, che pur avendo dei legami sentimentali o sessuali con qualcuno, può essere una persona valida. La realtà è molto facile da giudicare quando la si conosce poco per cui secondo me in questa storia ci sono tanti temi che ruotano soprattutto intorno alla vita delle donne perché si tende a giudicare molto più il femminile che il maschile, se è un uomo ad avere una storia extraconiugale con qualcuno non lo si giudica; se, invece, una donna ha una relazione con qualcuno che gravita nel proprio ambiente di lavoro allora è una “poco di buono”.

Si può dire che nel caso di Michela siamo ai limiti del mobbing?

Assolutamente, alla fine sceglierà di liberarsi di questa morsa e accoglierà la proposta di una collega di trasferirsi all’estero per riavere quella libertà, ma anche quel senso di giustizia verso se stessa… è come se se lo dovesse perché è una donna che ha faticato anche per arrivare dov’è arrivata, ha studiato e ritiene di potersi meritare ciò che conquista.

Si è fatta un’idea su come mai questo approccio/pregiudizio sia rivolto maggiormente verso le donne?

È sicuramente un retaggio culturale. Purtroppo il macigno culturale che abbiamo, derivante da tantissimi anni di patriarcato, è molto difficile da estirpare. Spesso non è un’idea che ci si fa delle persone in quel momento d’istinto, è proprio qualcosa che appartiene a un archetipo e cioè che la donna è quasi di proprietà di qualcuno, che deve stare in casa e debba essere moglie, mamma, così come se la donna tradisce è di facili costumi perché decenni incentrati sul dominio maschile ha fatto sì che gli uomini potessero conquistare qualsiasi tipo di libertà e le donne invece no. Di conseguenza dobbiamo fare in modo che quella cultura venga totalmente superata. La battaglia culturale passa anche dal rischio di un vittimismo (il che è patetico e fastidioso) e di far prevalere una categoria, ma non deve essere quello il principio. Però bisogna combattere per far emergere la problematica altrimenti rimarrebbe sempre invisibile - e lo è agli occhi di molte persone perché appare come ovvia.

Speriamo che progetti come “Sei donne - Il mistero di Leila” aiutino ad aprire gli occhi.

Credo che una strada si stia percorrendo e questo già un ottimo punto di partenza; sicuramente c’è aria di cambiamento.

Nel corso della presentazione stampa lei ha detto che le donne sono più profonde nella ricerca della verità, potrebbe approfondire questo punto?

Non volevo e non voglio risultare generica, esistono uomini profondi. È un tema legato più alle persone; però penso che, nel tempo, per una questione di possibilità e di peso sociale e culturale e, se vogliamo anche per una predisposizione naturale, sia più semplice forse per le donne l’aver sviluppato dei sistemi di conoscenza e relazione che abbiano a che fare molto più con il viscerale, con la profondità e l’empatia. Questo lo dimostra anche il personaggio di Anna Conti, che a volte ha delle derive di metodo, proprio perché ha un fiuto speciale che riguarda il mondo femminile, su tutto ciò che si cela dietro le cose. Spesso per indagare sulla verità non basta soffermarsi su come le cose sembrano in quanto c’è una necessità di aderire a un sentimento quanto più autentico possibile, altrimenti non c’è pace.

La sua Michela, nel momento in cui viene pressata durante il viaggio verso Bari dalla pm (durante la prima puntata), in merito a sua nipote, afferma che, al di là della questione dello psicologo, l’amicizia con Aysha e lo sport hanno aiutato Leila a riprendersi una vita. Pensando anche da madre, è possibile che l’amicizia e soprattutto lo sport possono aiutare a riprendersi da dei dolori?

Ne sono sicura. Lo sport ha una lunga serie di vantaggi - da quelli sociali di occasione per sperimentare anche delle regole di convivenza sociale ma anche di rispetto dei propri compagni di squadra, inclusa la necessità di soccorso nel caso in cui ci siano delle difficoltà, imparando il rispetto dell’avversario. Lo sport come qualsiasi altra attività che ti appassioni (come può essere la recitazione o qualcosa legata all’arte), che coinvolga mente, corpo, creatività e di conseguenza la creatività può essere una lente di ingrandimento sul mondo. Può aiutare a far conoscere gli altri in un modo atipico perché non è connesso alla routine quotidiana, ma fa aprire la mente e fa nascere la voglia di conoscere l’altro e magari anche di amarlo. Talvolta si è talmente chiusi che diventa molto difficile aprirsi agli altri e, quindi, anche lasciare andare le proprie emozioni.

Ha sottolineato un punto importante: si è molto chiusi. Secondo lei è stato accentuato questo atteggiamento dai due anni pesanti che abbiamo vissuto?

Sì. Se pensiamo a Leila, la morte della madre, quindi un lutto, può aver gravemente influito sul suo approccio verso la scuola, le amicizie, i sentimenti. Nel nostro caso (senz’altro non è la stessa cosa) può essere paragonabile per alcuni versi perché dall’oggi al domani abbiamo dovuto adottare dei cambiamenti drastici nelle nostre vite, non abbiamo più potuto vedere persone, non abbiamo più potuto assumere quella facilità di interazione con gli altri per cui ci siamo chiusi per forza di cose. Abbiamo dovuto imparare a relazionarci a distanza, eliminando il contatto, il suono vicino della voce, il contatto visivo o ancora le interazioni nelle attività come quelle sportive o legate alla natura o alla comunità scolastica. È stato un impatto ovviamente traumatico.

Questa serie affronta anche il gender gap. Per quanto riguarda il settore cultura-spettacolo, U.N.I.T.A. (Unione Nazionale Interpreti Teatro e Audiovisivo) ha evidenziato come l’unica cosa per cui non c’è un gender gap e che accomuna attori e attrici è la questione della mancanza ancora del contratto nazionale. Qual è la sua percezione?

Ho aderito a U.N.I.T.A. e ritengo che, in quanto associazione che coinvolge un gran numero di attori e attrici, stia muovendo molto bene le acque e per fortuna si sono esposti coloro che hanno più credibilità in questo sistema perché purtroppo funziona così: quanto più sei noto tanto più magari hai una voce; se, invece, non sei “nessuno” ovviamente non ti considerano, purtroppo. Ci sono attori e attrici che hanno utilizzato la loro immagine, il loro impatto visivo proprio per dire delle cose. Stiamo meditando con cura i passi. Il traguardo è ancora lontanissimo e, secondo me, anche qui è un problema che ha radici culturali perché la nostra professione è sempre stata considerata un po’ come la categoria di grandi privilegiati, che hanno sempre guadagnato tanti soldi, godendo di grandi privilegi, “viziati”. Quella è un’immagine connessa a ciò che arriva alla maggioranza della popolazione, come effetto finale, che, in parte può essere vero, ma nella vita non corrisponde assolutamente alla realtà. Stiamo parlando di una categoria che, col tempo, si popolata tantissimo; adesso per poter meritare veramente quei posti devi aver studiato tantissimo se lo si vuole fare in maniera canonica - a meno che non capiti un colpo di fortuna per cui vieni notato per strada e viene proposto di fare la protagonista di una serie.

Se parliamo della “normalità”, c’è una gavetta infinita (e Lotito ne ha fatta eccome e continua, non dando nulla per scontato, ndr), che non sempre porta a dei traguardi: basti a pensare a chi è stato scoperto a un’età piuttosto matura. È gravissimo che il nostro lavoro non sia mai stato considerato come una reale professione che meriti riconoscimenti e tutele. Non si può pensare che fare l’attore o l’attrice sia un privilegio perché questo comporta una serie di pregiudizi che innescano un circolo vizioso molto pericoloso come il semplice esempio: ti dò questa parte, ma devi tacere su quest’altro aspetto. Non può essere così perché io per venire a lavorare devo studiare e ci sono state delle attese a casa e queste ultime sono lavoro per cui vanno retribuite perché durante quello stare a casa si continua a irrobustire la professione attraverso studi, investimenti che si fanno su se stessi, anzi deve verificare la propria consapevolezza così come le insicurezze. Il non lavoro deve essere riconosciuto come il lavoro. A ciò va aggiunto, a esempio, che non abbiamo diritto a straordinari. Non c’è niente di garantito.

Uno dei punti cardine in “Sei donne” è il tema della violenza domestica. Senza spoilerare, tenendo conto di come viene ben sviscerato attraverso il “gioco” sulle verità, è importante come sia stato sviluppato tramite le varie prospettive e storie. Come l’ha vissuta dal punto di vista del lavoro sul personaggio di Michela.

Non possiamo addentrarci troppo proprio per non svelare. In generale questo progetto ha la forza di una scrittura sapiente per cui ripercorre delle tematiche anche abbastanza indicibili, molto difficili da esporre proprio perché possono sconfinare, alle volte, in qualcosa di troppo esplicito e anche bidimensionale. In questo caso, invece, tutti i temi sono restituiti in maniera tridimensionale: l’esposizione della tematica forte e grave avviene in maniera talmente sobria e sottile che basta il punto di vista di chi l’ha vissuta per dare profondità e gravità al tema stesso. C’è sia una distanza ma anche la voglia di implicarsi totalmente: la distanza apparente che assumono queste donne, in realtà significa un forte coinvolgimento personale ed è questa la cosa più straordinaria cioè che la realtà non è assolutamente come sembra. Avviene un ribaltamento totale, tanto che quando si arriva a nascondere così tanto di se stessi e degli altri ecco vuol quel dire che c’è un’adesione totale, ma anche un ripudio empatici rispetto a ciò che avviene attorno a noi».

Maya Sansa, che è anche «metà iraniana», ha dichiarato che è molto vicina alla situazione che si sta verificando in questo periodo. Allo stesso tempo richiamava una questione essenziale e cioè che riguardasse tutti noi, come se si prendessero le distanze perché avviene in Iran - e negli ultimi giorni ci sono stati anche gli avvelenamenti delle studentesse. In base alla sua sensibilità e alla responsabilità artistica e umana, cosa pensa che si possa fare dall’Occidente?

Mi pongo continuamente domande davanti a questo orrore. Mi chiedo perché nessuno faccia niente, quindi anche io per prima che mi sento così immobilizzata rispetto all’oscenità di tutto quello a cui assistiamo mi domando come posso intervenire perché delego la responsabilità ad altri che ovviamente potrebbero avere un “potere” più forte del mio. I social possono essere uno strumento per denunciare queste situazioni e mostrare vicinanza; ammetto che ho un po’ di difficoltà perché associo lo strumento social a un fatto di vanità… ci tengo a specificare che questo non vale per tutti, è un mio limite, dovrei imparare a superarlo per usarlo come strumento di comunicazione (lo dice in un’ottica propositiva e costruttiva, ndr). Sicuramente dobbiamo continuare a documentare ciò che accade lì.

Ho letto che in “Briganti” interpreti un personaggio femminile potente…

Non posso dire molto a riguardo. È una serie che uscirà prossimamente su Netflix, racconta il brigantaggio dal punto di vista femminile, infatti protagoniste sono queste tre brigantesse tra cui me. Dotata di grande ferocia e spregiudicatezza.

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