Ambiente

La pelle conciata al vegetale è sostenibile?

Attraverso questa tecnica, il materiale raggiunge una quantità media di carbonio bio-based (cioè di origine non petrolchimica) del 95%. Simile a quella di lana e cotone
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24 febbraio 2023 Aggiornato alle 15:00

La pelle è sostenibile? Quando è conciata al vegetale, la risposta potrebbe essere sì. Lo afferma una ricerca commissionata al laboratorio Ars Tinctoria dal Consorzio Vera Pelle Italiana Conciata al Vegetale, presentata in occasione del salone d’esposizione Lineapelle di Milano.

Se trattato con estratti provenienti dalle piante, secondo il Disciplinare di produzione, il materiale raggiunge una quantità media di carbonio bio-based (cioè di origine non petrolchimica) del 95%. La cifra è simile a quella contenuta in tessuti naturali come lana e cotone e, secondo le analisi, supera il 25% di quelli alternativi ricavati da cactus, ananas, mela o altri tipi di vegetali.

La concia al vegetale è il risultato di un antico metodo artigianale, tramandato di generazione in generazione nelle botteghe artigianali toscane prima, e nelle aziende poi, con poche modifiche.

Si basa su materiali naturali, come pelli, tannini, grassi e oli, proteine naturali.

Pur mantenendo inalterata la qualità di borse, giacche, consente di abbassare la quantità di emissioni totali della filiera (comprese quelle per i prodotti necessari per il trattamento della pelle) e la dispersione di sostanze chimiche inquinanti, causate dal processo tradizionale.

Il Consorzio Vera Pelle Italiana Conciata al Vegetale è nato nel 1994 per tutelare questa tecnica tradizionale. «Il nostro è un pellame di nicchia per prodotti di alta qualità e lunga durata, che nel 2022 ha registrato un fatturato complessivo superiore a 130 milioni, per un quota export del 55%», spiega il presidente, Leonardo Volpi. Ora, con la diffusione della sensibilità sull’ambiente e sulla crisi climatica, si prepara a contagiare il resto del settore.

È nata con questo obiettivo la ricerca di Ars Tinctoria.

Condotta dal chimico Gustavo Adrián Defeo nel laboratorio, specializzato in analisi al radiocarbonio, ha utilizzato un metodo innovativo per misurare l’incidenza del carbonio bio-based e la presenza di derivati del petrolio sui campioni delle 20 concerie toscane associate al Consorzio. Alle analisi ha collaborato anche Ppq Sense, una succursale dell’Istituto Nazionale d’Ottica.

Tramite la spettrometria Scar, analisi simile a quella usata per datare i reperti archeologici, i ricercatori sono in grado di identificare la parte biologica e la parte derivata dal fossile in una grande quantità di materiali. Questa tecnica potrebbe essere rivelarsi uno strumento prezioso per il mondo della moda.

Infatti permette di calcolare con precisione una parte significativa dell’impatto del settore, quello legato ai materiali petrolchimici che non inquinano solo in fase di produzione, ma anche durante l’utilizzo o nei processi di lavaggio: se i tessuti e i materiali che li contengono vengono danneggiati o sfregati, disperdono microplastiche nocive nell’ambiente.

«Abbiamo una responsabilità nei confronti della società e la nostra sfida è raggiungere un modello di sistema in grado di garantire principi di sostenibilità a livello sociale, economico e ambientale - ha detto ancora Volpi - L’esigenza era quella di dimostrare con dati scientifici che andiamo nella direzione della circolarità e la tradizione resta la scelta migliore da perseguire. Da qui la decisione di sottoporre ad analisi i pellami delle nostre concerie per misurare il grado di sostenibilità del materiale e orientare scelte e decisioni future».

L’alleata per ridurre l’impatto degli accessori di lusso quindi potrebbe essere la sapienza ultracentenaria dei maestri conciari toscani, che accompagnerà il Consorzio verso un futuro che mira a essere a zero rifiuti. Il prossimo esperimento sarà trasformare pelli, scarti e ritagli in fertilizzanti per agricoltura con un’altissima performance di cattura del carbonio.

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