Economia

Il generational pay gap è reale

La differenza retributiva tra i giovani della Generazione Z e i Baby Boomers è del 34%, secondo la società di consulenza Odm consulting. Non a caso, l’86% degli under 29 vive ancora con i genitori
Credit: John Diez
Tempo di lettura 7 min lettura
16 febbraio 2023 Aggiornato alle 08:00

L’Italia è un Paese sempre più vecchio, lo dimostrano i dati: nel 2021 l’età media della popolazione è arrivata a 46 anni; il 30,5% ha superato i 60 anni e oltre 4 milioni e mezzo sono over 80. L’attenzione alla salute e alle cura mediche hanno portato a un bellissimo traguardo: l’aumento delle aspettative di vita. Adesso, però, abbiamo un altro problema: i giovani nel mercato del lavoro.

Nonostante il report di Excelsior - realizzato in collaborazione con Unioncamere - stimi per i prossimi mesi del 2023 l’assunzione di oltre 1 milione di giovani, oggi la percentuale di occupati è del 21%. A gennaio 2023 sono state aperte 503.670 posizioni: di queste, circa 153.000 richiedevano preferibilmente under 29, mentre il 30% delle offerte era rivolto ai diplomati e il 20% ai laureati.

La popolazione degli under 35 è destinata a portare sulle spalle il peso - e il costo - di una consistente classe di lavoratori prossimi alla pensione. Nel mentre, i giovani sono impegnati a combattere contro le crescenti difficoltà del mondo del lavoro, dove negli ultimi 50 anni contratti e salari sono cambiati enormemente.

Infatti, secondo i calcoli della società di consulenza Odm consulting, in media un impiegato guadagna 33.514 euro annui. Rispetto a questa media si identifica un persistente gap generazionale che corrode lo stipendio delle ultime generazioni. Coloro che sono nati tra il 1946 e il 1964, i cosiddetti Baby Boomers, guadagnano il 17,5% in più della media (quindi poco meno di 40.000 euro annui); la Generazione X, ovvero i nati tra il ’65 e l’80, il 12,2% in più; i Millenials, nati tra il 1981 e il 1996 segnano un -1,6% mentre la Generazione Z , 1997-2012, il 23,1% in meno.

Dunque, facendo due calcoli, la differenza tra un over 60 e un 26enne è di 34 punti percentuali. Per gli operai la differenza tra Baby Boomers e Generazione X è, invece, di 14,7 punti percentuali e di 24,7 dalla Generazione Z.

Secondo l’Eurostat un giovane italiano guadagnerebbe in media 876 euro al mese e sarebbero circa 360.000 quelli a rischio povertà. Attualissimo è il dibattito sull’inserimento del salario minimo, una misura che potrebbe portare diversi benefici e tutelare tutti i lavoratori, non solo i più giovani. Una manovra che mette d’accordo Partito Democratico, Movimento 5 Stelle e Terzo polo, ma che dovrebbe essere attentamente pensata soprattutto in virtù degli eventi dell’ultimo anno, dato che la guerra Russia-Ucraina e l’inflazione hanno profondamente modificato le nostre condizioni di vita.

Si dichiara contraria invece Giorgia Meloni, fiduciosa del potere della contrattazione. Anche Maurizio Del Conte, docente alla Bocconi ed ex Presidente di Anpal (Agenzia Nazionale Politiche Attive del Lavoro), ritiene che questo non sia il momento giusto per prendere una simile decisione. Indispensabile è considerare che i prezzi sono aumentati del 10% e che, anche se l’inflazione si riducesse, saremmo ancora di fronte a percentuali piuttosto elevate che vedrebbero l’erosione del salario minimo in pochi mesi senza gli adeguati aggiornamenti normativi.

Tuttavia, un banco di prova per la gestione lo abbiamo già. Infatti, al di fuori dei confini nazionali la misura è stata ormai ampiamente testata: Lussemburgo, Belgio e Francia lo hanno legato a dei parametri sul costo della vita, negli Stati Uniti la decisione è presa in via parlamentare, in Spagna Portogallo, Grecia e Irlanda si ha una commissione bilaterale o trilaterale che rilascia, a seconda dei casi, un parere consultivo o vincolante.

L’applicazione in Italia non è però così scontata: diversi sono i nodi tecnici da sciogliere, in riferimento in primis al valore da applicare. La media nei Paesi Ocse (Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico) è inferiore ai 7 euro all’ora, mentre le trattative e le discussioni nel Belpaese sembrano orientarsi sui 9 euro/ora, una cifra che, avverte l’Ocse, potrebbe risultare poco competitiva sul mercato rischiando un aumento della de-localizzazione fuori dallo Stato per risparmiare su un costo di manodopera troppo alto.

A questo si aggiunge la necessità di comprendere se e come inserire nel calcolo tutte le voci che compongono la retribuzione a partire dal Tfr - trattamento di fine rapporto - fino a tredicesima, quattordicesima e premi produzione. Diventa necessario inoltre trovare un equilibrio tra minimum wage e contratti collettivi: questi raggiungono infatti anche gli 11,20% per il settore degli alimentaristi e degli edili, il 10,52% per i farmaceutici e 10,04% per i ceramisti.

Proprio qualche giorno fa, sono state condivise sui social le parole amareggiate dell’ingegnera 28enne a cui è stato offerto un posto di lavoro per 750 euro al mese. Il video ha diviso in due il pubblico: messaggi di solidarietà da una parte, aspre critiche dall’altra. Ma al di là delle ore, del livello o della competenza, possiamo dichiararci tutti d’accordo che l’ingegnera fa luce su un problema reale e che dobbiamo affrontare.

Secondo Istat, nel 2021 il 20% degli italiani aveva conseguito il titolo terziario, percentuale che sale al 26,8% nella fascia di età tra 30 e 34 anni. Negli ultimi 50 anni l’università ha spalancato le sue porte accogliendo un numero sempre crescente di giovani e, di conseguenza, è migliorato il livello di studio dei lavoratori: il 38% dei giovani tra i 25 e i 34 anni ha più titoli di studio della media dei lavoratori nello stesso settore.

Eppure lo studio non basta perché troppo spesso i giovani rimangono incastrati – e vengono sfruttati - all’interno di tipologie contrattuali incapaci di valorizzarli, come evidenzia Ivana Veronesi, segretaria confederale Uil: «Spesso i nostri giovani si formano moltissimo e quando escono dall’università gli viene offerto un tirocinio a 300 euro, ma questo non è salario, non è retribuzione, è solo un’indennità di tirocinio. E se lo si fa a scuola serve a capire se il lavoro piace o non piace, ma se si svolge dopo la formazione, i tirocini rischiano di essere solo sfruttamento lavorativo».

Purtroppo però la logica molto spesso utilizzata dai datori di lavoro è quella di usarli come un ricambio: assumere un ragazzo o una ragazza giovane, far svolgere loro mansioni basilari - che non richiedono competenze specifiche o responsabilità alcune - e, alla scadenza, rimandarlo a casa cercando un altro tirocinante. Un circolo vizioso.

Secondo l’Inapp (Istituto Nazionale per l’Analisi delle Politiche Pubbliche) nel 2021 7 giovani su 10 avevano un contratto a tempo determinato, mentre l’11,3% era occupato a tempo parziale, anche se non per scelta personale. A confermare questi dati è il Global Youth Development Index, che si basa su diversi parametri tra cui le opportunità e i livelli occupazionali, e che vede l’Italia 23° a livello internazionale e 16° su scala Europea.

Non c’è da stupirsi, quindi, se quasi l’86% dei giovani tra i 15 e i 29 anni vive ancora a casa di mamma e papà. Possiamo continuare a definire gli italiani dei “mammoni” - o perché no “paponi” - perché, forse, è anche la verità. Allo stesso tempo, però, non possiamo negare l’evidenza: le nuove generazioni devono fare i conti con una realtà problematica, dove spesso lo studio, l’impegno e la dedizione non sono abbastanza e dove l’indipendenza e la stabilità economica diventano un miraggio.

Ma il problema è di tutti perché per garantire il funzionamento della nostra economia e, più in generale, della nostra società il ricambio generazionale deve necessariamente funzionare.

Leggi anche
Realpolitik Exhibition by Luca Santese e Marco P.Valli, BASE/Milan photo week, Milano, 2019
Economia
di Chiara Ciucci 3 min lettura
Occupazione
di Mario Di Giulio 6 min lettura