Economia

Chi sono (e cosa vogliono) i nuovi lavoratori?

Nel 2022 ci sono stati +334.000 occupati in più. L’88%, però, sono uomini. Intanto, la pandemia e l’inflazione dettano le priorità: si cercano maggiore stabilità occupazionale, stipendi più alti e flessibilità
Credit: Seth Nicolas 
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3 febbraio 2023 Aggiornato alle 14:00

Buone notizie, o almeno in parte, per quanto riguarda il mercato del lavoro: come dichiarato dall’Istat, a dicembre 2022 si contano 37mila lavoratori in più rispetto al mese precedente. Ad aumentare sono soprattutto i dipendenti con contratto a tempo indeterminato, mentre i lavoratori con contratto a tempo determinato risultano in discesa.

Parlando in percentuali, il tasso di occupazione – tra i 15 e i 64 anni - è salito, da novembre a dicembre, dello 0,1% raggiungendo quota 60,5%, toccando il valore più alto dal 2004; rimane stabile il tasso di disoccupazione, mentre scende al 34,3% il tasso di inattività (ovvero il rapporto tra la popolazione che non lavora e non cerca lavoro, e la popolazione corrispondente per fascia di età). Considerando i 12 mesi, il numero dei lavoratori è aumentato di 334mila unità.

Cresce il numero dei dipendenti permanenti (+ 0,2% rispetto a novembre 2022) e degli autonomi (+0,7), mentre diminuisce la percentuale dei dipendenti a termine (-1,1%).

Tutte buone notizie, se non fosse che di queste 334mila nuove unità 296mila sono uomini (88%) e over 50 (92,5%). Soltanto 38 mila donne hanno trovato lavoro durante tutto il 2022. Questo mette in risalto un divario di genere ancora troppo presente in Italia. La situazione sembra migliorare se prendiamo in considerazione i soli dati di dicembre: di 37mila nuove unità, 19 mila sono donne e 18mila sono uomini. Guardando il tasso di occupazione femminile, esso si assesta al 51,3% contro quello maschile, 69,6%.

Attualmente le donne occupate sono 9.763.000 mentre gli uomini sono 13.452.000. L’occupazione femminile in Italia ha un tasso tra i più bassi rispetto agli altri Paesi dell’Unione Europea. Inoltre, le donne sono molto più frequentemente penalizzate dai contratti a tempo determinato o part-time.

Differenze notevoli anche a livello territoriale: cresce l’occupazione nel nord e nel centro Italia, mentre rallenta sempre di più nel Mezzogiorno. Emblematiche le parole di Francesco Seghezzi, Presidente della Fondazione Adapt (Association for International and Comparative Studies in Labour and Industrial Relations): «Il numero di donne occupate nelle regioni del sud è la metà della media europea».

Importante è anche il divario generazionale: l’occupazione cresce nelle classi di età 15-24 anni e 35-49, mentre diminuisce tra i 25 e i 34.

Ma come è cambiato il mondo del lavoro dopo la pandemia? Per rispondere a questa domanda, Randstad ha svolto la sua indagine, il Workmonitor, che si propone di monitorare l’atteggiamento dei lavoratori e il cambiamento del mercato del lavoro, attraverso un campione che comprende i lavoratori di oltre 30 Paesi.

Il 47% dice che vorrebbe un aumento mensile in base al costo della vita, il 44% ne vorrebbe uno in linea con la periodicità delle revisioni salariali annuali , il 32% vorrebbe dei contributi per il costo dell’energia o di altre spese quotidiane.

Prendendo come riferimento l’Italia, il 54% dei lavoratori è preoccupato per l’incertezza economica e sull’impatto che essa può avere sul proprio posto di lavoro, il 49% per la propria carriera. Si richiede soprattutto una maggiore stabilità occupazionale ma anche finanziaria.

Con l’inflazione, infatti, i lavoratori hanno subìto un duro colpo: da una parte è aumentato il costo della vita, dall’altro gli stipendi sono rimasti stabili. Questo ha portato a una perdita del potere d’acquisto: la differenza tra l’incremento dei prezzi al consumo e quello delle retribuzioni è arrivato a quota 7,6 punti, valore più basso dal 2001, stabilendo, dunque, un record negativo.

Non a caso, l’Italia è anche uno dei Paesi in cui gli stipendi sono cresciuti di meno negli ultimi 30 anni (+0,3%), secondo quanto emerge dagli ultimi dati Ocse.

Proprio il fattore economico è stato uno dei motivi principali che ha spinto i lavoratori italiani a dimettersi durante il 2022: sempre secondo l’indagine condotta da Randstad, il 60% non accetterebbe un nuovo lavoro se non si offrisse uno stipendio più elevato.

Non solo sicurezza economica, un altro aspetto importante per i lavoratori italiani è sicuramente la flessibilità oraria: per l’83% è indispensabile, tanto che il 35% rifiuterebbe un nuovo lavoro per mancanza di flessibilità di orario, e il 23% ha preferito abbandonare l’occupazione precedente proprio per mancanza di flessibilità sia di orario che di luogo.

A tutto ciò si aggiunge l’insoddisfazione da parte dei lavoratori nei confronti delle imprese: l’Italia è ancora molto indietro rispetto alla media globale, siamo sotto di 8 punti percentuali per quanto riguarda la flessibilità oraria, e di 6 punti per la flessibilità di luogo.

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