Economia

1,6 milioni di dimissioni nei primi 9 mesi del 2022

Un aumento del 22% rispetto al 2021 (1,3 milioni). I motivi principali sono legati alla ricerca di una maggior flessibilità lavorativa e di una retribuzione migliore
Credit: Cup of Couple/pexels
Tempo di lettura 3 min lettura
23 gennaio 2023 Aggiornato alle 20:00

Come riportato dagli ultimi dati trimestrali sulle comunicazioni obbligatorie del Ministero del Lavoro, nei primi 9 mesi del 2022 si è verificata un’ondata di dimissioni. I numeri sono notevoli, 1,6 milioni: un aumento del 22% rispetto ai primi 9 mesi del 2021, quando ne erano state registrate circa 1,3 milioni. In - continua - crescita anche il numero dei licenziamenti. Sempre nello stesso periodo, i rapporti lavorativi interrotti per licenziamento sono stati 557.000. Nei primi 9 mesi del 2021, invece, ne sono stati registrati 379.000.

Ma quali sono i motivi che spingono i lavoratori e le lavoratrici a lasciare il loro posto di lavoro? A tal proposito si è espressa la Cgil (Confederazione Generale Italiana del Lavoro), secondo la quale 2 potrebbero essere i motivi principali: da un lato, la ricerca di un lavoro più agile e flessibile, complice soprattutto la pandemia; dall’altro, un aumento generale del malessere legato a uno scarso coinvolgimento o alla mancanza di valorizzazione della propria professionalità. Da non sottovalutare anche l’aspetto economico: dopo la pandemia le priorità lavorative sono cambiate. Si è alla ricerca di lavori più flessibili, ma soprattutto ben retribuiti.

Per avere maggiori risposte, è fondamentale l’indagine condotta dall’Inapp (Istituto Nazionale per l’Analisi delle Politiche Pubbliche) sulla qualità del lavoro. Circa il 24% dei dipendenti si sente a rischio sul posto di lavoro e la situazione diventa più critica nel Mezzogiorno, dove la percentuale sale al 28%.

Un altro aspetto che contribuisce a una bassa qualità del lavoro è la mancanza di flessibilità di orario (circa il 37%). E le donne sono quelle più colpite, per le quali la percentuale sale al 42%.

Infine, anche l’attività ripetitiva è un fattore da non sottovalutare. Secondo l’indagine, i più colpiti sono i giovani tra i 18 e i 34 anni, soprattutto nel Mezzogiorno, anche perché non riescono a intravedere prospettive di crescita professionale.

Dunque, le imprese che pongono il focus sul benessere lavorativo e un’elevata qualità del lavoro sono, in Italia, una minoranza. E proprio su questo punto è intervenuta la Cisl (Confederazione Italiana Sindacati Lavoratori): «il fenomeno delle dimissioni volontarie […] ci interroga profondamente sul cambiamento del mercato del lavoro indotto anche dal “periodo di riflessione” consentito dal lockdown durante la pandemia. La recente indagine Inapp sulla qualità del lavoro ci offre però una chiave di lettura del fenomeno assolutamente coerente con la situazione italiana», spiega Giulio Romani, segretario confederale.

Importante, in questo senso, è anche la ricerca dell’Osservatorio HR Innovation Practice del Politecnico di Milano, che ha dimostrato che il 46% cambia lavoro per cercare benefici economici, il 35% per migliorare le opportunità di carriera, il 24% per una maggiore salute mentale e fisica, il 18% per inseguire le proprie passioni, e il 18% per una maggiore flessibilità oraria.

Per migliorare la qualità del lavoro, e quindi anche il benessere del lavoratore, è fondamentale puntare sull’innovazione e sul miglioramento della gestione delle risorse umane: attualmente solo l’8% delle imprese italiane lo ha fatto. La strada è ancora lunga.

Leggi anche
occupazione
di Azzurra Rinaldi 4 min lettura
Diritti
di Gianclaudio Bressa