Economia

Gli uomini non cercano più lavoro? Datelo alle donne

Scoraggiati dalle crisi, perdono fiducia e rimangono inattivi. Così, il 25% dei maschi italiani tra i 15 e i 64 anni sta a casa. E se rivedessimo la divisione del lavoro tra i generi, rilancia qui l’economista?
Credit: Marten Bjork
Azzurra Rinaldi
Azzurra Rinaldi economista
Tempo di lettura 4 min lettura
5 aprile 2022 Aggiornato alle 08:00

Quello italiano è un mercato del lavoro strutturalmente inospitale per la forza lavoro femminile. Per quali motivi? Uno su tutti, quello che Alberto Alesina e Andrea Ichino nel loro volume LItalia fatta in casa chiamano il familismo amorale”. Gli autori evidenziano come nel nostro Paese vi sia una radicata suddivisione del lavoro effettuata sulla base del genere: alle donne, il lavoro di riproduzione (gratuito) dentro casa, agli uomini, il lavoro di produzione (retribuito) fuori casa. Non a caso, il tasso di inattività delle donne italiane è sempre stato (ed è tuttora) più elevato rispetto a quello delle donne degli altri Paesi europei.

Di conseguenza, sarebbe lecito aspettarsi che quello degli uomini sia più elevato, o quantomeno in linea con la media europea. E invece no. Perché gli uomini italiani si scoraggiano. I più giovani fanno fatica a entrare sul mercato del lavoro, i meno giovani ne escono troppo presto, in generale tutti soffrono molto le congiunture di crisi.

È quanto emerge dal Report elaborato da Randstad, la multinazionale olandese leader nel settore delle risorse umane e pubblicato con il titolo Le isole degli uomini inattivi. Tra gli uomini italiani di età compresa tra i 15 e i 64 anni, ben il 25% è inattivo (la media europea è al 20,5%). In tutta l’Unione Europea, a mostrare dati peggiori sono solo Montenegro, Croazia e Belgio. L’Italia è particolarmente lontana dai Paesi più virtuosi come la Germania, la Spagna, la Francia o la Svezia in particolare relativamente alla fascia di età più giovane e comunque inferiore ai 59 anni (l’inattività giovanile in Italia è tra le più elevate in Europa, con oltre 4 punti percentuali in più rispetto alla media).

Leggendo il Report, si conferma inoltre il ben noto tema territoriale: circa il 43% degli uomini inattivi si concentra nel Sud e nelle Isole (e stiamo parlando del 28,5% sul totale degli uomini che vivono in quale regioni, cioè quasi uno su tre). Sempre nel Mezzogiorno si trova 63% degli inattivi italiani di età compresa tra i 30 e i 34 anni e perfino il 70% degli uomini inattivi che hanno tra i 35 e i 39 anni. Nelle altre aree del nostro Paese (Centro, Nord Ovest e Nord Est), la quota degli inattivi sul complesso della popolazione maschile è molto più modesta ed è compresa tra il 19,2 e il 20%. Ma non si pensi che questa sia una scelta: il 42% degli uomini italiani inattivi dichiara che vorrebbe un lavoro, anche se ha smesso di cercarne attivamente uno.

Perché quindi sono inattivi?

Nel Report si suggeriscono alcune chiavi di lettura. Si ricorda, a esempio, che la produttività del nostro Paese è strutturalmente bassa: nel periodo 1999-2018, a fronte di un incremento medio del 20% nei maggiori Paesi europei, la produttività oraria del lavoro italiana è aumentata solo del 4,1%. Si richiama, poi, il tema della crescita: tra il 1995 e il 2020, il PIL italiano è cresciuto solo dello 0,3% (la performance peggiore tra tutti i Paesi avanzati).

Aggiungiamo qualche riflessione ulteriore, a partire dalla scarsa valorizzazione del capitale umano. Perché quello italiano è un mercato del lavoro che crede in maniera troppo radicata alla perfetta sostituibilità delle risorse umane e che non è invece in grado di stimare adeguatamente il valore che ciascuna persona, proprio in virtù della sua unicità, può portare all’azienda. e infatti, coerentemente, sulla formazione non si investe, tanto meno sulla formazione continua. Un dato su tutti? In Italia, meno del 14% degli uomini tra i 25 e i 34 anni beneficia di percorsi di formazione continua. In Svezia, il 31%.

Un altro spunto: per le donne italiane, l’inattività è quasi sempre legata a fattori esterni, come a esempio il fatto di doversi sobbarcare la quasi totalità delle attività di cura non retribuita, come anticipavamo in apertura. Per gli uomini, afferma il Report, si tratta invece di fattori interni: diminuisce la fiducia che ripongono sul mercato del lavoro e pian piano smettono di cercarne uno attivamente. Con la conseguenza che gli uomini si scoraggiano percentualmente di più rispetto alle donne. e in questo possiamo rinvenire uno schema ricorrente, perché il lavoratore italiano sembra reagire alle crisi proprio in questo modo. Ne troviamo conferma nei dati: nella crisi economico-finanziaria del 2009, l’incremento del numero di inattivi maschi è stato più che proporzionale rispetto a quello delle donne inattive (rispettivamente, +4% contro +2%), proprio per questo motivo.

E quindi non possiamo non chiederci: ma se gli uomini di fronte alle crisi si scoraggiano ed escono dal mercato del lavoro e le donne vorrebbero tanto entrarci, ma non riescono perché sono schiacciate dal lavoro di cura non retribuito, non sarà arrivato forse il momento di metterla in discussione, questa tradizionale divisione del lavoro?