Economia

Stop russo al grano: le conseguenze arrivano in tavola

Il prezzo dei cereali si impenna mentre Ucraina, Turchia e Onu provano ad arginare il blocco di Mosca. Coldiretti lancia l’allarme: a rischio anche l’import italiano
Credit: ZUMA Press Wire
Fabrizio Papitto
Fabrizio Papitto giornalista
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31 ottobre 2022 Aggiornato alle 18:00

«Oggi 12 navi hanno lasciato i porti ucraini. Le delegazioni dell’Onu e della Turchia hanno messo a disposizione dieci squadre di ispezione per controllare 40 navi al fine di soddisfare l’iniziativa sul grano del Mar Nero. Il piano di ispezione è stato accettato dalla delegazione ucraina. La delegazione russa è stata informata».

È il messaggio con cui il 31 ottobre ministro ucraino delle infrastrutture Oleksandr Kubrakov ha annunciato la prima contromisura presa tra i vertici di Onu, Ucraina e Turchia in merito al transito del grano attraverso il corridoio umanitario nel Mar Nero.

L’intesa arriva dopo che il 29 ottobre la Russia ha annunciato la sospensione dell’accordo sul grano, raggiunto il 22 giugno con la mediazione della Turchia dopo settimane di trattative, in seguito all’attacco da parte di Kiev alla flotta russa nella baia di Sebastopoli.

«Le navi della flotta del Mar Nero che sono state l’obiettivo dell’attacco terroristico sono coinvolte nel garantire la sicurezza del corridoio del grano nell’ambito dell’iniziativa internazionale per esportare prodotti agricoli dai porti ucraini», ha affermato lo stesso giorno il ministero della Difesa russo.

Da qui, secondo il governo di Mosca, la decisione di interrompere l’accordo. Ora l’intesa di Erdogan e Zelensky con l’appoggio delle Nazione Unite dovrà però fare i conti col grande assente rappresentato dalla Russia, che ha già allertato gli altri attori del patto.

«Nella misura in cui la Russia parla dell’impossibilità di garantire la sicurezza della navigazione in queste aree, ovviamente, è difficile che un tale accordo sia fattibile. E assume un carattere diverso, molto più rischioso, pericoloso e non garantito», ha affermato il portavoce del Cremlino Dmitry Peskov.

A nulla è servito, quindi, l’appello dell’Unione europea per bocca di Joseph Borrell, Alto rappresentante dell’Ue per gli affari esteri e la politica di sicurezza, che il 30 ottobre aveva esortato la Russia a «tornare indietro sulla sua decisione» in quanto «mette a rischio la principale via di esportazione dei cereali e fertilizzanti necessari per affrontare la crisi alimentare globale causata dalla sua guerra contro l’Ucraina».

Intanto, mentre il prezzo del grano ha già registrato un’impennata sui mercati internazionali, la sospensione dell’accordo sui cereali rischia di interrompere le spedizioni anche verso l’Italia, dove arrivavano dall’Ucraina quasi 1,2 miliardi di chili di mais per l’alimentazione animale, grano tenero e olio di girasole.

Con una quota di poco superiore al 13% per un totale di 785 milioni di chili, l’Ucraina è infatti il secondo fornitore di mais dell’Italia. Secondo l’analisi su dati Istat relativi al commercio estero per il 2021, Kiev garantisce invece appena il 3% dell’import nazionale di grano (122 milioni di chili) mentre sono pari a 260 milioni di chili gli arrivi annuali di olio di girasole.

«L’Italia è costretta a importare materie prime agricole a causa dei bassi compensi riconosciuti agli agricoltori che hanno dovuto ridurre di quasi 1/3 la produzione nazionale di mais negli ultimi 10 anni», spiega il presidente della Coldiretti Ettore Prandini. Nello specifico l’Italia importa il 62% del proprio fabbisogno di grano per la produzione di pane e biscotti, il 35% del grano duro per la pasta e il 46% del mais di cui ha bisogno per l’alimentazione del bestiame.

Per questo «occorre lavorare da subito per accordi di filiera tra imprese agricole e industriali con precisi obiettivi qualitativi e quantitativi e prezzi equi che non scendano mai sotto i costi di produzione – aggiunge Prandini – ma serve anche investire per aumentare produzione e le rese dei terreni con bacini di accumulo delle acque piovane per combattere la siccità, contrastare seriamente l’invasione della fauna selvatica che sta costringendo in molte zone interne all’abbandono nei terreni e sostenere la ricerca pubblica con l’innovazione tecnologica a supporto delle produzioni».

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