Diritti

Lavoro in carcere? Una chance per pochi

Secondo i dati dell’Amministrazione Penitenziaria, solo 3 detenuti su 10 lavorano. E nel periodo gennaio-giugno 2022 il 3,2% ha concluso un corso professionale
Credit: Andrea Piacquadio/pexels
Costanza Giannelli
Costanza Giannelli giornalista
Tempo di lettura 5 min lettura
7 novembre 2022 Aggiornato alle 11:00

Quali siano le condizioni all’interno delle carceri italiane lo raccontano fin troppo bene – troppo spesso inascoltati – report, indagini, testimonianze. Anche noi le avevamo raccontate, concentrandoci sulla drammatica situazione di sovraffollamento, mancanza di supporto psicologico e trattamenti troppo spesso disumani che si erano tradotti in un numero di suicidi tra i detenuti straordinariamente alto.

Un articolo a firma di Bianca Lucia Mazzei per Il Sole 24 Ore, però, ora fa luce su un’altra enorme criticità del sistema penale italiano che ha come obiettivo ultimo – ricordiamolo – il reinserimento dei detenuti: l’inefficacia del lavoro e della formazione in carcere.

«Il lavoro in carcere, soprattutto quello più formativo e professionalizzante svolto per imprese e cooperative esterne all’amministrazione penitenziaria, resta una chance per pochi», spiega l’autrice: solo il 4,5% dei detenuti, infatti, svolge attività con aziende e cooperative, mentre la formazione è in calo.

In ulteriore calo, potremmo dire: le statistiche dei percorsi formativi all’interno degli istituti penitenziari, infatti, non hanno mai brillato. Basta pensare che, negli ultimi trent’anni, la quota più alta di detenuti coinvolti è quella del 2004, pari al 5,7% del totale. Un numero già molto basso, che si sta riducendo ulteriormente.

Nel periodo gennaio-giugno 2022 solo il 3,2% dei detenuti ha concluso un corso professionale.

Quello che mostrano i dati del dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, però, è che a diminuire non è solo il numero dei corsi portati a termine, ma anche quello degli iscritti. Già prima del crollo legato dalla pandemia, che ha quasi azzerato (0,7%) la partecipazione ai percorsi formativi, per un decennio il grafico è stato in discesa, dal 4-5% al 2-3%. Questo è legato non solo alla mobilità dei detenuti, ma soprattutto al fatto che, spesso, la scelta è tra la formazione e il lavoro.

Un lavoro che, però, è ancora per pochi. E in poche zone: come spiega Mazzei, le opportunità si concentrano prevalentemente in alcune zone, Lombardia e Veneto sopra tutte. Se meno di cinque detenuti su 100 lavorano (4,5%) con cooperative o aziende esterne, a essere più diffuse sono le possibilità professionali alle dipendenze dell’amministrazione penitenziaria. Secondo i dati del ministero della Giustizia coinvolgono quasi il 30% dei presenti a fine giugno e riguardavano l’87% dei detenuti “occupati”. Questo tipo di attività – lavori di pulizia, lavanderia e simili – però, sono poco qualificanti e, soprattutto, vengono assegnate a rotazione e sono pertanto di breve durata.

La quota totale di detenuti che lavorano è del 34%, un dato in linea con quello degli anni precedenti. Significativamente, la percentuale è identica a quella del 1991: negli anni, il dato è crollato intorno al 2010 per raggiungere il picco negativo del 19% nel 2012, ma nonostante la ripresa non si riesce a superare la soglia dei tre detenuti lavoratori su 10.

Eppure, come riporta il Ministero della Giustizia, «l’art. 15 della l. 354/1975 - Ordinamento penitenziario (o. p.), individua il lavoro come uno degli elementi del trattamento rieducativo stabilendo che, salvo casi di impossibilità, al condannato e all’internato è assicurata un’occupazione lavorativa. […] Nel nuovo quadro normativo il lavoro svolto dalle persone detenute è sostanzialmente allineato a quello svolto dai cittadini liberi. Non è obbligatorio, in ragione del principio di libera adesione al trattamento, non è afflittivo, ha una funzione risocializzante coerente con il dettato dell’art. 1 della Costituzione e deve favorire l’acquisizione di una formazione professionale adeguata al mercato».

Se una parte di questo discorso è certamente vero – i detenuti che lavorano sono remunerati, hanno diritto a ferie, assenze per malattia retribuite, contributi assistenziali e pensionistici – quello che ancora manca non è solo la capacità di coinvolgere un numero più ampio di detenuti ma anche, e soprattutto, proprio la coerenza il dettato dell’articolo 1 e la capacità di creare dei percorsi formativi e professionali che siano realmente qualificanti e che possano preparare a un successivo ingresso nel mondo del lavoro.

I lavori più qualificanti, ovviamente, sono quelli con soggetti esterni al carcere.

Come ha spiegato al Sole 24 Ore Cosima Buccoliero, direttrice della casa circondariale di Torino che a Milano aveva diretto il carcere modello di Bollate, però, «nonostante gli sgravi fiscali e contributivi previsti dalla legge Smuraglia, purtroppo sono pochi gli imprenditori interessati a investire. Il carcere, però, è anche respingente. Dovrebbe piegarsi di più alle esigenze degli imprenditori. Serve un approccio diverso e vanno accettati i rischi di una maggiore flessibilità. Ne vale la pena».

La “legge Smuraglia” (o, più precisamente, “Legge 22 giugno 2000, n. 193 - Norme per favorire l’attività lavorativa dei detenuti”) garantisce benefici fiscali ai datori di lavoro che assumono detenuti, anche come lavoranti esterni con rientro notturno in istituto «pari a 520 euro sotto forma di credito d’imposta per ogni detenuto assunto», oltre a uno sconto del 95% sui contributi che il datore di lavoro versa allo Stato per la pensione e l’assistenza sanitaria. Questi benefici si estendono a un periodo di 18 o 24 mesi successivi alla scarcerazione.

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