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Arte sulla pelle: le diverse ragioni del tatuaggio

Nel 1700 rappresentava un simbolo di buono auspicio per i marinari. Oggi ha tutto un altro significato: più personale, legato alla singola persona. Ma sai perché sono sempre dispari?
Credit: Jefferee Woo/Tampa Bay Times via ZUMA Press Wire
Tempo di lettura 4 min lettura
16 ottobre 2022 Aggiornato alle 09:00

Simbolo di appartenenza, segno magico, marchio di infamia: oggi il tatuaggio, spogliato di questi significati, è divenuto semplice ornamento del corpo e accessorio di moda, così diffuso in Italia da spingere l’Istat a farlo rientrare nel 2016 nel paniere, l’indice dei prezzi al consumo sul quale si calcola il tasso di inflazione.

Sono infatti 6,9 milioni le persone italiane tatuate, il 12,8% della popolazione e in prevalenza riguarda la fascia di età fra i 18 e i 44 anni. Chi si tatua lo fa per ragioni principalmente estetiche (96,5%) contro lo 0,5% che lo ha fatto con finalità mediche e il 3% come trucco permanente, secondo un’indagine dell’Istituto Superiore di Sanità.

A prescindere dallo stile, tradizione vuole che il numero dei tatuaggi sia dispari. Ma perché?

Tutto iniziò nel XVIII secolo, quando gli equipaggi del capitano James Cook - il famigerato esploratore che scoprì le Hawaii - si spinsero nelle lontane isole del Pacifico, dove appresero l’arte del tatuaggio e la riportarono nel Vecchio Continente, non più praticata dopo numerose bolle papali che la decretarono proibita: troppo intrisa di paganesimo per papa Adriano I che nel 787 d.C. impose pene feroci a chi osava marchiarsi il corpo, creato perfetto da Dio.

Tra i marinai divenne così consuetudine tatuarsi simboli di buon auspicio per proteggersi durante i lunghi viaggi in mare: stelle nautiche, arpioni, rose dei venti confluiranno nel genere Old School, ricchissimo di simboli marinareschi. La prassi era quella di farne uno alla partenza e un altro all’arrivo. Il terzo si faceva una volta tornati a casa sani e salvi.

A questi se ne sommava un altro ancora, in caso di nuova partenza, un quinto al ritorno e così via. Ogni incisione rappresentava un viaggio e il tipo di imbarco: un’ancora indicava un porto atlantico, una tartaruga il passaggio oltre l’equatore, il drago lo scalo nei porti cinesi, fucili e cannoni rappresentavano invece la marina militare.

Per tutto il secolo successivo il tatuaggio si affermò negli ambienti di malaffare: prostitute, giocatori d’azzardo e criminali. Con il saggio L’uomo delinquente, l’antropologo Cesare Lombroso mette in correlazione il tatuaggio con la degenerazione innata del delinquente, definendo l’atto del tatuarsi sintomo di regressione morale molto vicina ai primitivi. Uno stigma che, solo negli anni Sessanta del XX secolo, i movimenti degli hippies, dei punk, dei bikers e molti altri sono riusciti a scardinare attraverso la pratica politica del tatuaggio.

Benché vietati nelle carceri per l’elevato rischio di contrarre il virus Hiv o dell’epatite, oggi i tatuaggi continuano a indicare la propria appartenenza a uno specifico gruppo criminale e a raccontare la storia personale del detenuto. Uno dei più popolari nelle carceri di tutto il mondo e inciso tra le dita della mano è rappresentato da 5 punti, dove 4 formano le mura della cella e quello centrale indica il detenuto.

Il tatuaggio mantiene ancora oggi il suo significato primario di appartenenza a un gruppo anche per marcare la propria identità spirituale, come avviene tra i cristiani copti d’Egitto e di Etiopia.

Tatuarsi è una pratica antichissima, come mostrano la mummia di una sacerdotessa egiziana vissuta tra il 1300 e il 1070 a.C. a Deir El-Medina e la mummia Ötzi, databile circa 3300 a.C. e conservata nel Museo Archeologico di Bolzano. Ciò che è cambiato - soprattutto in Occidente - è la sua funzione: il tatuaggio non parla più a un gruppo, ma si rivolge al singolo visto che, tranne per alcune eccezioni, non possiede più un linguaggio codificato: per sapere cosa significa, bisogna chiederlo a chi lo indossa.

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