Ambiente

Australia: più conigli che canguri?

Secondo uno studio pubblicato su Proceedings of a National Academy of Sciences la colonizzazione dei piccoli mammiferi, che sta compromettendo le coltivazioni e le specie autoctone del Paese, è partita da una manciata di esemplari selvatici. Importati per la caccia a metà Ottocento
Credit: Ellie Burgin/Unsplash
Caterina Tarquini
Caterina Tarquini giornalista
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31 agosto 2022 Aggiornato alle 07:00

Secondo uno studio pubblicato recentemente sulla rivista scientifica Proceedings of a National Academy of Sciences, l’invasione di conigli in Australia sarebbe partita da un gruppo di 24 esemplari importati dal Regno Unito verso la metà dell’Ottocento.

Quello dei conigli è un problema notevole per il Paese: i danni provocati alle coltivazioni ammonterebbero attorno ai 200 milioni di dollari australiani all’anno.

Per non parlare poi della sopravvivenza di molte specie animali e vegetali, messa a dura prova dal sovrappopolamento di conigli.

Attraverso l’analisi di documenti storici e di Dna ə scienziatə sono riuscitə a ricostruire il fenomeno che negli anni ha assunto delle proporzioni spaventose, tanto da essere definito “una delle invasioni biologiche più emblematiche e devastanti mai osservate nella Storia”.

A ben vedere i conigli sono mammiferi autoctoni provenienti dal continente europeo. Sono giunti in Australia per la prima volta nel 1788 a bordo della Prima Flotta – le 11 navi che dall’Inghilterra veleggiarono alla volta del Nuovo Mondo per colonizzarlo – e in particolare le popolazioni che a oggi infestano il territorio sembrano discendere un gruppo ristretto di conigli, portati da un colono inglese appassionato di caccia al coniglio.

I ricercatori hanno esaminato i filamenti di Dna di 187 conigli europei trovati in Australia, Nuova Zelanda, Tasmania, Francia e Inghilterra: la scoperta sorprendente è stata che il patrimonio genetico delle famiglie australiane era molto simile a quello delle popolazioni nella regione di Baltonsborough, nel sud ovest del Regno Unito.

Nel 1859 Thomas Austin liberò nella sua tenuta a Geelog, a ovest di Melbourne, alcuni conigli selvatici, 24 per l’esattezza, che gli erano stati inviati dalla Gran Bretagna. Dopo appena 3 anni i conigli, noti per essere animali particolarmente prolifici, si erano adattati al nuovo habitat e si erano moltiplicati fino ad arrivare ad alcune migliaia di esemplari. Nel giro di mezzo secolo si erano diffusi in lungo e largo, per tutto il Paese, con effetti disastrosi sui molti habitat che avevano colonizzato.

Nella prima metà del Novecento si raggiunse un picco di 10 miliardi di animali, tanto che le autorità australiane presero misure di vario tipo per tenere sotto controllo la loro diffusione: dalla costruzione di recinti per confinarli in determinate aree, dall’avvelenamento, all’introduzione di un virus che causa una malattia infettiva nei conigli.

Una delle ipotesi più suffragate, secondo Mike Letnic, professore dell’Università del New South Wales e tra i principali autori della ricerca, sarebbe che il corredo genetico dei conigli trasportati oltre Oceano sia stato cruciale per consentire il loro adattamento nel nuovo ecosistema.

In precedenza, nella maggior parte dei casi, i conigli importati erano addomesticati e non erano quindi riusciti a espandersi sul territorio: quelli di Austin invece, essendo selvatici, potrebbero aver giocato un ruolo determinante per la loro proliferazione.

«La colonizzazione più rapida di un mammifero introdotto in un nuovo habitat mai osservata prima d’ora», l’ha definita Joel Alves, ricercatore dell’Università di Oxford e primo autore dello studio.

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