Ambiente

Viaggio dove la crisi idrica non dovrebbe arrivare

La siccità che sta piegando l’intera Penisola è ancora più visibile nei grandi invasi del Nord Est. Un tempo serbatoio preziosissimo di acqua
Vista lago dalla diga Sauris
Vista lago dalla diga Sauris Credit: via Tripadvisor
Tempo di lettura 7 min lettura
9 agosto 2022 Aggiornato alle 11:00

La crisi idrica che sta colpendo in questi giorni l’Italia è ancora più visibile nei grandi invasi nel Nord Est del Paese, lì dove un tempo l’acqua era la ricchezza del territorio.

Un viaggio sul confine tra Friuli e Veneto, oltre a disvelare paesini che come gioielli sono incastonati tra le Dolomiti, racconta una storia di un passato glorioso: dall’alto Friuli con la diga di Sauris per scendere giù verso valle sino alla più tristemente nota diga del Vajont.

Un comune denominatore di questa storia è la Sade, la Società Adriatica di Elettricità, una società elettrica privata veneziana, nata a inizio Novecento “per la costruzione e l’esercizio di impianti per la generazione, trasmissione e la distribuzione di energia elettrica in Italia e all’estero”. In poco tempo la Sade conquistò un vero e proprio monopolio fagocitando nel tempo imprese più piccole e stringendo rapporti con i rappresentanti dello Stato.

In effetti gli impianti in uso sono proprio quelli costruiti nella prima metà del secolo scorso, capaci oggi di immagazzinare l’11% dell’acqua piovana, all’epoca era il 15% perché nel frattempo, non essendoci stata manutenzione, i sedimenti si sono via via accumulati e lo spazio per l’acqua si è ridotto, e queste grandi dighe stoccano sempre meno acqua.

Una soluzione potrebbe derivare dall’uso dei dissalatori, certamente bisognerebbe fare qualcosa per non sprecare gli investimenti fatti fino a ora per la costruzione di queste opere fantastiche d’ingegneria.

La prima che incontriamo, procedendo in ordine cronologico, è la diga Sauris, collocata in un paese dalle antiche tradizioni immerso nelle Alpi Carniche e centro abitato a quota più alta sul livello del mare del Friuli Venezia Giulia, il cui isolamento geografico ha preservato le tradizioni dall’avvento di una tecnologia conformista.

In questa conca, coronata dalle cime dolomitiche, si giunge risalendo la strada che da Ampezzo costeggia il torrente Lumiei, affluente del fiume Tagliamento, e proprio dallo sbarramento di questo corso d’acqua che nasce il lago.

Oggi il suo bacino, che può contenere fino a 70 milioni di metri cubi d’acqua, è in sofferenza, ma questo non offusca la meraviglia del posto: le acque dal colore verde azzurro risplendono sotto il sole caldo che vi si rispecchia dentro.

Chissà cosa avrà pensato l’ingegnere Carlo Semenza quando progettò la diga che, inaugurata nel 1948, con la sua altezza di 136 metri, era la più alta d’Italia.

La diga è detta a doppio arco, cioè curvata sia in altezza che in lunghezza, ed è grazie al cemento armato che si sono potute realizzare queste opere che oggi ci regalano questi scenari.

Ma il viaggio a Sauris oltre che per il paesaggio e per il clima fresco, sempre più difficile da trovare in questa calda estate, è giustificato dal gusto affumicato, unico e inconfondibile del prosciutto che, da 160 anni, si prepara come da ricetta del norcino Pietro Schneider detto “Wolf”. Un aperitivo con un po’ di prosciutto danno la carica per scendere verso valle, verso il bellunese.

L’acqua era una risorsa per questa specifica zona d’Italia, specialmente per il bellunese, e l’industria nazionale aveva fame di energia, in particolare il nuovo polo industriale di Porto Marghera.

Costruita tra il 1946 e il 1949 sempre dalla Sade, la diga di Pieve di Cadore, tipo di sbarramento ad arco gravità, cioè che reagisce alla spinta dell’acqua grazie alla sua forma ad arco e al suo peso, ha un’altezza di 112 metri, con un coronamento lungo 410 metri.

Il suo bacino, di circa 50 milioni di metri cubi di acqua, fa da serbatoio di regolazione per il fiume Piave formando il lago di Centro Cadore.

Anche questo progetto è a firma dell’ingegnere Carlo Semenza, uno degli esponenti della Scuola Italiana di Ingegneria nel XX secolo, che coglie questa occasione per prototipare le dighe ad arco gravità.

Alla base della diga, se da un lato il colore dell’acqua è diventato più azzurro, dall’altro è diventata una palestra di arrampicata a tutti gli effetti, offrendo attività di educazione sportiva e ambientale, perché mai come oggi è fondamentale operare in modo ambientalmente sostenibile e in armonia con il territorio.

Ma arriviamo alla diga delle dighe, quella che sicuramente tutti hanno sentito nominare almeno una volta: la diga del Vajont, anche questa progettata da Semenza.

Il disastro del Vajont coincide con l’apice del successo dell’ingegneria italiana e si può assumere come simbolo dell’inizio del suo declino.

Causa della tragedia è la diga più alta del mondo, 265 metri, orgoglio dell’ingegneria italiana e cuore dello sfruttamento idroelettrico del bacino del Piave, a cui oggi si giunge dopo essersi arrampicati sul crinale della montagna su una mono corsia in cui l’alternanza delle numerose auto è scandito da diversi semafori.

I lavori iniziati nel 1957 terminano nel 1959, nello stesso anno si scopre una frana, sul versante verso l’invaso, del monte Toc e crollarono circa 3 milioni di metri cubi di terreno.

Dei campanelli di allarme suonarono e una serie di relazioni geologiche sull’esistenza o meno della frana si susseguirono. Nel 1961 muore il progettista che non vedrà mai la diga in funzione, in realtà a causa della tragedia la diga non entrò mai in piena operatività.

La Sade, concessionaria dell’impianto, continuava a riempire l’invaso senza avvertire la popolazione del possibile rischio, ed era imminente il passaggio all’Enel: semplificando possiamo dire che più acqua entrava in diga, più la Sade avrebbe guadagnato dalla vendita delle azioni.

Infatti, la diga passò a Enel e venne testata e riempita d’acqua fino a giugno del 1963 dove raggiunse la sua massima quota.

I movimenti franosi si susseguirono, il monte Toc assorbì acqua come una spugna e, precipitosamente, si decise per lo svaso che iniziò solo a settembre di quell’anno.

Togliendo acqua non si fece altro che accelerare il movimento franoso dal monte, e infatti il 9 ottobre 1963, alle 22.39, una frana lunga circa 2 km e larga quasi 800 metri, alta fino a 400, e con una velocità stimata di 90 km/h cadde nell’invaso generando un’onda anomala che spazzò via i paesi di Erto e Casso, che si affacciavano sul bacino, e oltrepassando la diga, che restò indenne, travolse il paese di Longarone che si trovava a valle.

Il bilancio fu tragico: più di 2000 persone persero la vita e, quella sera, l’ingegneria italiana divenne il simbolo della tragedia.

Non è infatti più l’ingegnere che in divisa opera per il bene della società, come era nell’Ottocento, ma il complice di un disastro, piegato da interessi economici privati pur consapevole di tutti i pericoli.

Qui la visita dal gusto amaro per chiunque partecipi, ancor più per un ingegnere, serve a ricordare per non ripetere gli stessi errori.

La città di Longarone è stata ricostruita cercando di geolocalizzare gli edifici pubblici nello stesso identico posto in cui erano, ma con delle fondazioni 7 metri più in alto: tanti sono i metri dei detriti rimasti.

Ormai i cambiamenti climatici che hanno caratterizzato questi ultimi tempi hanno modificato anche l’uso di queste grandi strutture che oggi fungono da contenimento delle piene e, molto spesso, non generano più energia, sia per mancanza di acqua, sia per una errata e superficiale gestione degli invasi.

Ciò nonostante, il nostro Bel Paese ci offre ancora luoghi incantevoli dove si può percepire meglio la malattia del pianeta, e può servire, oltre che per visitare un bel posto, e mangiare del buon cibo, a darci uno scossone: è oggi che vanno trovate le cure.

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