Diritti

E no, “così non schwa”

Nel suo libro Andrea De Benedetti spiega come le diseguaglianze risiedano nelle cose più che nel linguaggio. Ma se è vero che le parole danno forma ai pensieri, non potremmo partire da qui?
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Valeria Pantani
Valeria Pantani giornalista
Tempo di lettura 4 min lettura
24 luglio 2022 Aggiornato alle 20:00

“A tutti”. Con questa dedica Andrea De Benedetti apre il suo libro Cosí non schwa. Limiti ed eccessi del linguaggio inclusivo (Einaudi Editore): non con “A tutti e tutte” o “A tuttə”. Così, già dalle primissime parole, è possibile capire dove la lettura condurrà lettori, lettrici e (forse più importante) lettorə.

«Le lingue sono organismi vitali che rispondono a bisogni pratici più che etici - si legge nel libro - Devono garantire una comunicazione fluida ed efficace prima di farsi veicolo di istanze simboliche e identitarie».

Parliamo quindi della volontà delle singole persone di decidere come venire chiamate: che sia avvocata anziché avvocato, che sia ragazzə anziché ragazzo o ragazza. La “nota dolente” che viene evidenziata (nel libro e, in generale, in tanti altri contesti) è la difficoltà di lettura, di pronuncia e di comunicazione del linguaggio inclusivo.

«Questo piccolo pamphlet - continua il libro - serve a ricordare che la lingua può concorrere a “creare mondi” ma che le diseguaglianze risiedono essenzialmente nelle cose: nei diritti negati, nelle discriminazioni, nel gender gap, nella cronica mancanza di donne in posizioni apicali, nel sessismo quotidiano».

Quindi dovremmo relegare la questione linguistica in secondo piano? Forse, ma non è anche vero che, essendo le parole il principale mezzo di comunicazione, sono proprio queste a dare senso e significato a ciò che diciamo/scriviamo? D’altronde, come spesso ripetiamo, le parole sono importanti.

Sono così importanti perché capaci di cambiare e formare il nostro pensiero sui più disparati temi. Anche De Benedetti sembra essere d’accordo: «Questo non significa che la lingua non abbia una sua profonda valenza simbolica, che non condizioni il nostro modo di pensare e agire […] Non bisogna però mai dimenticare che il cuore del problema sta quasi sempre altrove».

E qui ritorniamo sul gender gap, sul sessismo quotidiano, sulle discriminazione razziali, sull’abilismo. Ma, di nuovo, non è forse il linguaggio un buon punto di partenza (non l’unico) per scuotere i pensieri e sensibilizzare le persone al cambiamento?

Nonostante il focus sia lo schwa, il libro analizza le parole anche dal punto di vista “maschile/femminile”, spiegando come in realtà questo mancato binarismo sia una convenzione «che aiuta i parlanti a gestire in maniera snella ed efficace il sistema degli accordi […] Il fatto che poi le donne non riescano ancora a raggiungere posizioni apicali resta certamente un enorme problema, anzi il problema, ma la morfologia a quel punto non c’entra più nulla».

Tornando allo schwa, il capitolo tre analizza i costi e i benefici di questo discusso simbolo: permette di superare il maschile sovraesteso, di comunicare correttamente (e rispettosamente) con una persona anche quando non si conosce il genere, «cancellerebbe dalla lingua il privilegio maschile di marca patriarcale». Ma a che prezzo, si chiede De Benedetti? «Si tratterebbe di impiantare un suono nuovo pressoché dal nulla. In che modo? […] Di sicuro non basta confidare nell’evoluzione spontanea della lingua».

Eppure, grazie allo schwa, a questa “e” a testa in giù, moltissime persone trovano un modo di raccontarsi e identificarsi con linguaggio. E, per questo motivo, tuttə noi potremmo (per non dire dovremmo) fare più attenzione, così da rendere reale la diversità del mondo.

Perché, come spesso ribadisce la sociolinguista Vera Gheno, la diversità è ricchezza e deve essere nominata con le giuste parole. Non è proprio questo il loro potere? Dare forma ai pensieri?

Intanto, mentre la diatriba tra “sì schwa” e “no schwa” continua, noi ci facciamo attenzione e continuiamo a utilizzarlo. Con tuttə.

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