Ambiente

Come siamo arrivati al crollo della Marmolada?

Secondo Jacopo Pasotti, autore e divulgatore scientifico intervistato da La Svolta, sono due le cause principali: la poca neve caduta e le temperature inadatte. Ma era prevedibile?
Jacopo Pasotti su un ghiacciaio delle Alpi
Jacopo Pasotti su un ghiacciaio delle Alpi Credit: Profilo Instagram Jacopo Pasotti
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13 luglio 2022 Aggiornato alle 13:15

Lo scorso 4 luglio è crollato un enorme blocco di ghiaccio che ha provocato, a oggi, 11 vittime accertate. La catastrofe della Marmolada non è un fenomeno isolato e vale la pena interrogarsi sulle cause che hanno portato a questo evento tragico per prepararci al futuro.

Alcuni aspetti della dinamica devono ancora essere del tutto chiariti, ma fin da subito gli esperti hanno attribuito il disastro alla pochissima neve caduta lo scorso inverno e alle temperature inadatte a un ambiente glaciale. Si stima che al termine della stagione primaverile di quest’anno ci fosse circa il 60-70% di neve “di residuo” in meno.

Jacopo Pasotti, autore, fotografo e divulgatore scientifico che si occupa ormai da anni di cambiamenti climatici, ha spiegato a La Svolta la sua analisi su ciò che è successo sul ghiacciaio più esteso delle Dolomiti, partendo proprio dalla mancanza di neve dei mesi scorsi: questa «si deposita sul ghiacciaio e ha la funzione di proteggerlo, riflettendo la luce; quest’anno, tuttavia, il mantello di neve protettiva non ha retto, la neve si è sciolta molto rapidamente, e così il ghiacciaio».

«L’estate è cominciata un mese e mezzo prima del previsto e questo ha causato uno scioglimento del ghiaccio prematuro e aggressivo», ha spiegato. La tantissima quantità d’acqua presente sul ghiacciaio si è infiltrata nei crepacci, agendo principalmente in due modi: esercitando una forte pressione sul crepaccio, spingendo l’acqua verso il basso in un angolo critico per la pendenza, e infiltrandosi nel ghiacciaio lubrificando la base. I due effetti combinati hanno fatto sì che un enorme blocco di ghiaccio e roccia si staccasse precipitando a valle a più di 300 chilometri orari.

Oltre alla mancanza di neve, l’altra causa del disastro è stata la temperatura del tutto inadatta a un ghiacciaio. Si sente spesso parlare di temperature massime e, in questo caso, del picco di 10 gradi in vetta alla Marmolada, ma Pasotti ha evidenziato che il problema sono state soprattutto le temperature minime: non sono andate sotto lo zero. L’ambiente alpino, durante la stagione estiva, affronta il disgelo durante le ore di sole, ma la notte si risolidifica con le basse temperature. Quest’anno il ghiacciaio non ha mai riposato, continuando il processo di scioglimento ininterrottamente.

Era prevedibile? «In breve, no, questo specifico evento non era prevedibile». Anzi, Pasotti ha raccontato di non essere stato stupito dalla presenza di molte persone in vetta al ghiacciaio perché storicamente «fine giugno è un buon periodo dell’anno per andare in vetta, ci sono delle condizioni molto buone. Quando si sale su un ghiacciaio si entra sempre in un luogo che non è sicuro: è una falsa concezione cittadina che non ci siano rischi».

Esiste, piuttosto, il concetto di riduzione del rischio, con cui dovremmo avere più dimestichezza. Scegliere il periodo giusto è certamente uno strumento di riduzione (non di eliminazione) del pericolo, ma in questo caso non era visibile lo scioglimento così prematuro del ghiaccio.

Questo specifico disastro, quindi, non rientrava nelle normali previsioni delle condizioni meteo, perché non esiste uno storico di eventi simili a cui fare riferimento: il cambiamento climatico ha ancora molti aspetti che non riusciamo a controllare con gli strumenti attuali.

Chi frequenta la montagna è abituato, il giorno precedente a un’escursione in un luogo particolarmente impervio, a consultare dei bollettini, come per esempio quelli per il pericolo valanghe in inverno: viene assegnato un grado di pericolo da 1 a 5 e gli alpinisti sanno quali luoghi frequentare in sicurezza e quali evitare. Questi bollettini invernali sono stati costruiti «con monitoraggi capillari e dati specifici sull’evoluzione del manto nevoso, avvalorati da decenni di studio, eppure falliscono anche loro».

Ha senso chiedersi, al di là della vicenda della Marmolada, seppur molto vicina a noi, che cosa significa questo singolo evento nel fenomeno più globale del cambiamento climatico. Pasotti nel suo ultimo libro, Cambiamento climatico: perché avviene, come avviene, cosa fare, ha concluso che gli eventi meteorologici catastrofici aumenteranno di frequenza e intensità.

Le condizioni climatiche che si sono registrate in vetta al ghiacciaio alpino sono destinate a ripetersi, ma questo non è sufficiente per prevedere i disastri ambientali: «ci si arriverà con sistemi di monitoraggio e potremo forse arrivare a bollettini di pericolosità». Per ora, quindi, questi eventi catastrofici sono «fuori dalla norma perché è la normalità che sta cambiando. Sono destinati a ripetersi e ad aumentare fino a esaurimento della materia prima, cioè del ghiaccio».

Paradossalmente, i rischi legati al crollo dei ghiacciai si ridurranno al minimo quando scompariranno i ghiacciai stessi: «se le temperature dovessero continuare a salire, si prevede che entro il 2050 si scioglieranno quasi del tutto i ghiacciai a sud delle Alpi, con sconvolgenti conseguenza climatiche per l’ambiente circostante», ha spiegato Pasotti.

Sappiamo che non tutto il mondo soffre i cambiamenti climatici allo stesso modo, alcune zone ne risentono più di altre, come le Alpi, in cui le temperature aumentano a una velocità doppia rispetto alle regioni limitrofe: se nella pianura padana, ora gravemente colpita dalla siccità, si è registrato un innalzamento medio di 1 grado nell’ultimo anno, sulle Alpi la temperatura media è aumentata, in media, di più di 2 gradi.

Lo stesso fenomeno si registra nelle aree polari e, in generale, « tutte le regioni montuose del Pianeta assistono a una accelerazione più rapida degli effetti del cambiamento climatico e provocano un cambiamento del regime idrico a valle», che ha conseguenze sulla vita sociale e sulla sopravvivenza degli ecosistemi e delle persone.

Ma come si comunica la crisi climatica? Chi utilizza quotidianamente i social si sarà certamente reso conto dei sempre più frequenti riferimenti alla sostenibilità ambientale nella comunicazione.

L’enorme impatto sui social di questa comunicazione green ha creato «una grande sovrapposizione tra brand, comunicazione e attivismo» dice Pasotti e, a fronte di profili che fanno un ottimo lavoro di divulgazione, ce ne sono molti che lo fanno con una scarsa qualità e approssimazione nelle informazioni.

Il tema ambientale sui social, e non solo, ha visto spesso unirsi le figure dei divulgatori scientifici con quelle di attivisti, probabilmente per l’estrema importanza e urgenza della questione in tutti gli ambiti della nostra vita sociale e politica. Pasotti, che non si definisce un vero e proprio divulgatore (ma colui «che documenta la scienza sul campo») si è detto a favore di questa commistione, quando sorretta da studi autorevoli: «sono a favore dell’attivismo sul clima, anche da parte dei divulgatori e delle divulgatrici, per un cambiamento politico».

Non sarà, infatti, l’azione del singolo a cambiare le sorti del Pianeta ma «azioni politiche forti e impopolari». È faziosa tutta quella comunicazione politica e tipicamente conservatrice, spiega Pasotti, che vuole «responsabilizzare solo il singolo perché vuole mostrarsi sensibile al cambiamento climatico, ma deresponsabilizza le grandi aziende e le grandi compagnie dell’industria».

L’unica azione possibile è quella politica, coadiuvata dalla condotta consapevole degli individui che, uniti, possono dare un segnale politico e un messaggio collettivo verso un consumo più responsabile e consapevole.

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