Ambiente

I (still) love shopping

Definito come una patologia occidentale al pari della bulimia, ha fatto sì che in media, ognunə di noi, abbia 10 mila oggetti di proprietà nella propria abitazione. Come uscirne?
Anni Rapinoja, Wardrobe of Nature (2005-2011), Kiasma Museum of Contemporary Art
Anni Rapinoja, Wardrobe of Nature (2005-2011), Kiasma Museum of Contemporary Art Credit: https://www.artsy.net/artist/anni-rapinoja
Cristina Sivieri Tagliabue
Cristina Sivieri Tagliabue direttrice responsabile
Tempo di lettura 4 min lettura
11 giugno 2022 Aggiornato alle 07:00

Questo è un articolo che non ha una risposta alla domanda perché la risposta non esiste. Ci sono “delle risposte”. Inadatte, imperfette, imbarazzate. Ed è anche un pezzo di una persona in profondo dissidio con se stessa e che prova difficoltà nell’affrontare un argomento necessario. Che non si può più nascondere sotto lo zerbino.

È la difficile e inprocrastinabile questione delle cose che possediamo, e di cui ci liberiamo senza sapere dove vanno a finire. Ma che sappiamo che andranno a fare casino con l’ecosistema.

Sappiamo che faranno casino ma non ci pensiamo perché non viviamo in quei Paesi dell’India o dell’Africa dove ci sono vere e proprie montagne di abiti sintetici accanto al parco giochi dei bambini. Ma ci sentiamo, quando ci pensiamo, soprattutto in difficoltà con quelle cose che costruiscono la nostra identità di occidentali, donne e uomini. Gente che ha bisogno di vedersi sempre nuova, anche fuori, anche attraverso gli abiti che indossa.

Personalmente sono affascinata dalla ritualità delle sfilate e delle creazioni dei marchi nei quali in qualche modo mi riconosco. Sono, però, sempre più consapevole che la routine del glamour e il continuo aumentare delle stagionalità di prodotto – gli inglesi buttano 79 abiti ogni anno su cento acquistati – sta creando vere e proprie devastazioni ambientali.

Credo che lo shopping sia una passatempo liberatorio ma so anche che – come spiega un articolo pubblicato dai ricercatori Selin Atalay e Margaret Meloyil 60% di chi passa il tempo in un negozio non ha una reale necessità di un capo d’abbigliamento. Lo fa per sentirsi coccolatə, per riempire un vuoto, per scappare dalla tristezza, per uscire dalla depressione, per rompere la routine, per non pensare.

Conosco a memoria le puntate di Sex&TheCity, le protagoniste hanno fatto sognare tutte noi: più per gli outfit che per gli uomini a dire il vero, perché le protagoniste sono un po’ quello che indossano, e ci giocano tanto. E anche a me piacciono gli abiti che ho nell’armadio.

E anche se sono attenta a cosa mi accade quando entro in un negozio – e la commessa prova a farmi sentire bella (è il suo mestiere!) – so che non indosserò mai tutti gli abiti che ho.

Forse ne utilizzo un decimo. Il resto è lì a ricordarmi che spero arriverà un’occasione speciale per indossare quell’abito. A volte capita, ma sempre meno spesso. In pratica, acquisto l’abito in attesa di un evento che spero accadrà ma che non sono certa lo farà. Oppure acquisto un abito in occasione di un evento che accadrà e che spero sarà speciale (il più delle volte non si rivelerà così speciale). Oppure, ancora, acquisto un abito per pensarmi un’altra persona. Quando desidero tantissimo uscire dalla persona che sono, ed evadere dalla noia che provo per me.

Lo shopping, insomma, è un po’ un’evasione. Se va bene, visto che secondo lo psicologo Jack Gorman è una patologia occidentale. Esattamente come anoressia a bulimia, agisce sull’incapacità di sentirsi sazi, e a posto.

Per questo, credo, l’acquisto non ragionato si chiama “compulsivo”. Ci pensiamo, ma anche in questo caso, non risolviamo.

Anche su internet, il meccanismo è un po’ quello. Ora alcuni marchi elimineranno la pratica dei resi gratuiti – gli abiti che ordini a casa, provi, e poi che restituisci se non ti piacciono – anche a causa delle emissioni che un processo come questo comporta.

Ma poi ci sono cose più grandi che stanno accadendo. Donazioni come quelli di Shein (un fatturato di 10 miliardi/anno), che a bassissimo prezzo offre scaffalate di prodotti, e che proprio ieri ha annunciato un investimento di 50 milioni di dollari nei prossimi cinque anni per «affrontare la gestione globale dei rifiuti tessili».

Ne abbiamo scritto ieri sera, ed è solo l’ultimo greenwashing in ordine temporale. E anche se è vero che l’Europa si sta impegnando a lavorare meglio su questo fronte, e a organizzare sistemi funzionanti di economia circolare, l’aumento del volume dei consumi è inesorabile.

E allora che fare? Prima di tutto, pregare la santa Marie Kondo e seguire i suoi consigli di ottimizzazione degli spazi, e delle scelte.

Poi calcolare il cost per wear degli abiti che indossiamo: se l’hai pagato 100 euro e messo solo una volta, forse la prossima pensaci un attimo. Infine, scegliere da chi acquistare ma anche fare scelte razionali, e cominciare a pensare alla questione shopping con una prospettiva diversa: acquistare da piccoli produttori, fare attenzione ai materiali, conoscere e condividere le politiche delle aziende nei confronti di fornitori e dipendenti.

Ma non so se ce la possiamo fare. Ma dobbiamo farcela!

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