Economia

Cosa fanno i big della moda low cost per essere green?

Inditex ha investito 100 milioni di euro per l’acquisto di una fibra tessile riciclata. Perché oggi la sostenibilità non è più un’opzione: è un obbligo. Come spiega alla Svolta la direttrice del “Monitor For Circular Fashion” della Bocconi
Christian Boltanski, Personnes (Persone/Corpi) (2010) al Museo Nacional de Bellas Artes, Santiago, Cile, 2014.
Christian Boltanski, Personnes (Persone/Corpi) (2010) al Museo Nacional de Bellas Artes, Santiago, Cile, 2014. Credit: Christian Boltanski, ADAGP, Parigi, 2021. Per gentile concessione: Museo Nacional de Bellas Artes, Santiago, Cile. Foto: Jorge Brantmayer.
Chiara Manetti
Chiara Manetti giornalista
Tempo di lettura 7 min lettura
16 maggio 2022 Aggiornato alle 11:00

Le pratiche sostenibili si stanno facendo largo nel settore dell’abbigliamento.

Pochi giorni fa Inditex, il gruppo globale di vendita al dettaglio di moda composto da sette marchi - Zara, Pull&Bear, Massimo Dutti, Bershka, Stradivarius, Oysho e Zara Home – ha firmato un impegno triennale da oltre 100 milioni di euro per l’acquisto di una fibra tessile riciclata.

Si tratta di una collaborazione con Infinited Fiber Company, gruppo finlandese di tecnologia tessile che trasforma gli abiti di scarto ricchi di cotone in Infinna, una fibra ricavata dagli scarti degli abiti, biodegradabile, priva di microplastiche e, per questo, riciclabile. La differenza con il cotone quasi non si percepisce, visti aspetto e consistenza morbida e naturale simile al cugino ricavato dalla bambagia.

Al centro di questa partnership c’è l’impegno triennale di Inditex (il cui utile netto, nel 2021, ha segnato un + 193% rispetto all’anno precedente, con 3,24 miliardi di euro), ad acquistare il 30% della produzione annuale di Infinna™. Per l’occasione Zara ha lanciato una capsule collection – ovvero una piccola collezione in edizione limitata - “realizzata per il 60% con fibra prodotta da rifiuti tessili riciclati, la maggior parte provenienti dal nostro programma di raccolta di indumenti”.

A marzo l’associazione nazionale dei costruttori italiani di tecnologie per calzature, pelletteria e conceria aveva spiegato che la domanda da parte dei marchi che richiedono la fibra Infinna era 5 volte superiore alla capacità della struttura esistente. “Si prevede che la prima fabbrica di Infinited Fiber con una capacità tale da svolgere queste operazioni in scala raggiungerà la piena produttività entro il 2025”, spiega in questi giorni Zara.

Inditex, che punta a raggiungere la neutralità climatica entro il 2040, ha seguito la scia di altre grandi aziende che hanno scelto di collaborare con Infinited Fiber Company: Adidas, Patagonia, H&M Group, Zalando, Wrangler, e molte altre.

Segno che le aziende del settore moda si stanno interessando sempre di più ad avviare percorsi di sostenibilità. Lo spiega alla Svolta Francesca Romana Rinaldi, professoressa all’Università Bocconi e direttrice del Monitor for Circular Fashion alla SDA Bocconi School of Management. «Oggi la sostenibilità è diventata cool, quindi il rischio di greenwashing (ovvero la spennellata verde che non prevede un ripensamento dei processi aziendali verso la sostenibilità) è ancora più elevato».

Questo aspetto riguarda, in particolare, i grandi marchi di fast fashion: «Il futuro del settore moda verso la sostenibilità sarà sempre più accelerato dalla transizione circolare. La scarsità delle risorse rappresenta certamente un problema prioritario per il settore moda: il Circular Economy Action Plan parte da questa consapevolezza e spinge le aziende a considerare i rifiuti come risorse», spiega Rinaldi.

Anche nel Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza sono stati assegnati «150 milioni di euro alla realizzazione di “Textile Hub” per lo sviluppo di tecnologie evolute di riciclo tessile: una grande opportunità per la circolarità del settore moda deriva dalla possibilità di trasformare i rifiuti pre-consumer e post-consumer in nuove materie prime da reintrodurre in nuovi cicli produttivi».

Rinaldi, che è consulente sui temi della sostenibilità, circolarità, trasparenza e tracciabilità per aziende e istituzioni, racconta che l’attenzione a queste tematiche riguarda anche gli stessi consumatori, «soprattutto quelli delle nuove generazioni, molto attente a queste tematiche, che vogliono sapere cosa c’è dietro al prodotto per fare delle scelte informate».

Per evitare di deluderle e rischiare di essere considerati dei greenwashers, la tracciabilità di filiera e il racconto trasparente della stessa sono un buon punto di partenza, per esempio. «È in questa direzione che va il progetto della Commissione Economica per l’Europa delle Nazioni Unite The Sustainability Pledge, che chiede di aderire con un impegno concreto alla loro call to action (c’è un form da compilare, ndr)».

Si tratta di una serie di raccomandazioni politiche, linee guida e standard che consentono agli attori del settore di autenticare le proprie affermazioni sulla sostenibilità. In questo scenario anche i governi sono chiamati a dare maggiori certezze ai consumatori e agli altri attori della filiera: secondo Rinaldi, «partendo da uno standard di trasparenza e tracciabilità sarà possibile avere criteri certi per incentivare le aziende del tessile, abbigliamento e calzature. a esempio, dando un supporto all’innovazione tecnologica, alle infrastrutture, ai progetti pilota per la sostenibilità, agli appalti pubblici sostenibili e più visibilità alle best practices».

Alcuni brand di moda, per esempio, hanno introdotto il reso a pagamento per i prodotti acquistati online: se un capo non soddisfa il cliente, il rinvio in negozio non sarà più gratuito. Sono moltissime le persone che, non conoscendone l’impatto ambientale, acquistano già sapendo che restituiranno molti dei capi ricevuti.

«Il boom dell’e-commerce durante la pandemia ha visto anche l’impennata dei resi. Se è vero che la logistica di ritorno (l’insieme di pratiche e processi destinati a gestire i resi e il rientro dei prodotti dai punti vendita al produttore per eseguirne la riparazione, il riciclaggio o lo smaltimento al minor costo possibile, ndr) è necessaria a estendere il ciclo di vita dei prodotti, è anche vero che se non si utilizzano delle pratiche di green logistics, come l’uso di fonti di energia rinnovabili e l’intermodalità, o packaging sostenibile, allora il maggiore impatto ambientale è inevitabile».

Per ridurre le pratiche di reso, secondo Rinaldi, «la prima soluzione è quella di educare i consumatori a valutare con più attenzione gli acquisti online, magari disincentivando il reso chiedendo spiegazioni obbligatorie o addirittura prevedendo un pagamento».

Si tratta di riconsiderare il significato di qualità, «facendo perno sulla trasparenza nella tracciabilità della filiera, fornendo garanzie sull’utilizzo di materie prime e processi produttivi rispettosi dell’ambiente e delle persone». Qualità, per Rinaldi, include anche il concetto di durevolezza: «Le aziende responsabili hanno il dovere di estendere la vita del prodotto non solo partendo dall’utilizzo di materie prime di qualità, ma anche offrendo servizi di riparazione, consigli per la manutenzione per arrivare alle alternative all’acquisto, ovvero il cosiddetto consumo collaborativo (l’affitto dei vestiti, per esempio, o l’acquisto di abiti di seconda mano)».

È di questo che parla il libro in uscita della professoressa Rinaldi, “L’impresa moda responsabile” (Edizioni Egea): «Nell’era della “modernità liquida” cambiano i paradigmi del consumo e i modelli di business, trasformazioni accelerate fortemente dall’impatto della pandemia sulle catene del valore. Questa rivoluzione riguarda anche il mondo della moda, sia nelle dinamiche di produzione e distribuzione sia nell’atteggiamento del consumatore, sempre più attento all’acquisto responsabile, rispettoso dell’ambiente e della sostenibilità – economica, ecologica ed etica - della filiera», spiega Rinaldi.

Il libro, già nel 2013 – questa sarà una nuova edizione aggiornata -, aveva illustrato alcune prime buone pratiche di aziende responsabili: «a distanza di quasi un decennio, gli autori condividono il risultato di un attento monitoraggio dell’evoluzione delle catene del valore sostenibili e della rapida trasformazione verso i modelli circolari, con dati aggiornati sulle normative di recente approvazione in vigore nella legislazione europea, nuovi casi aziendali, un focus sulla tracciabilità, la trasparenza e la circolarità dei processi produttivi, distributivi e di consumo».

Il corso online e on-demand di Circular Fashion Management della SDA Bocconi School of Management che Francesca Romana Rinaldi presiede – in partenza a giugno 2022 -, spiega «l’ampia varietà dei modelli circolari, dall’utilizzo di risorse circolari, all’estensione della vita dei capi tramite la modularità, i servizi di riparazione, la seconda mano, la gestione del fine vita attraverso recycling, upcycling e downcycling». Senza scordare l’importanza della tracciabilità e della trasparenza di filiera come fattori per accelerare la sostenibilità e la circolarità nel settore moda.

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