Storie

Cosa serve ai lavori del futuro? Mettere al centro le persone e le loro storie

L’autrice e manager Silvia Zanella ha rivelato a La Svolta cosa vorrebbe cambiasse nei prossimi anni nel mondo del lavoro: «valorizzazione delle unicità, equa distribuzione della ricchezza», ma anche un work life balance «che ci faccia concentrare su ciò che è davvero importante»
Silvia Zanella
Silvia Zanella
Tempo di lettura 6 min lettura
10 aprile 2024 Aggiornato alle 13:00

Fin dal primo giorno, La Svolta si è occupata di raccontare i grandi cambiamenti in corso nel mondo, prestando particolare attenzione all’ambiente, ai diritti, all’innovazione sociale, culturale e tecnologica, dando voce soprattutto ai giovani e alle donne, nelle cui mani è riposto il futuro, a partire dalla transizione ecologica.

Per fare questo, vuole dare spazio e parola a professionisti e professioniste impegnate nel sociale, fonti di ispirazione, che con la loro visione e intraprendenza ogni giorno si impegnano a far rete e a creare progetti di crescita, per migliorare il benessere della comunità.

Ha quindi intervistato Silvia Zanella, che si occupa e scrive di futuro del lavoro, come manager, public speaker, autrice, giornalista professionista; alle spalle, ha una esperienza di 20 anni in multinazionali operanti nei servizi e oggi, oltre a essere una Linkedin Top Voice Lavoro, è direttrice della collana Voci del lavoro Nuovo di FrancoAngeli.

Chi è Silvia Zanella? Quali sono i traguardi di cui è più orgogliosa?

Sono una persona che ha avuto il privilegio di poter osservare da vicino le diverse trasformazioni del lavoro negli ultimi 20 anni e che ha l’obiettivo di contribuire a sua volta a un mondo del lavoro migliore. Sono orgogliosa sia di essere una voce riconosciuta nel mondo del lavoro grazie alla mia attività giornalistica, editoriale, che di aver concretamente aiutato molte persone a trovare opportunità professionali adatte a loro, ma anche di essere stata di supporto alle aziende nelle loro trasformazioni in ambito risorse umane.

Si ricorda quando e per quale “battaglia” ha iniziato ad avere un ruolo attivo per la sostenibilità sociale?

Nel 2018 ho iniziato a maturare la convinzione che il futuro del lavoro andasse costruito e che fosse compito delle istituzioni, delle imprese ma anche del singolo fare tutto il possibile per disegnarlo in maniera sostenibile e “umana”, agendo con proattività e prendendo il meglio dalla tecnologia. Nel 2019 ho fatto un TedX su questo e con l’avvento della pandemia, in concomitanza con l’uscita del mio ultimo libro, ho visto la possibilità di cambiare davvero tante dimensioni del lavoro non più sostenibili.

Cosa vuol dire scrivere di futuro del lavoro?

Vuol dire prendersi la responsabilità di immaginarlo e definirlo in anticipo, con la speranza, almeno nel mio caso, che questo contribuisca a farlo trasformare davvero nella direzione auspicata. Significa diffondere consapevolezza e attenzione su certi temi, con l’obiettivo di costituire massa critica affinché quel pensiero diventi patrimonio comune. Significa anche prendere delle cantonate, come mi è capitato in passato, e assumersene il rischio.

“Il futuro del lavoro è femmina” è il titolo di un suo celebre saggio e del suo TedX. Può raccontarci il significato di questa definizione?

Chiariamo subito che la mia non è una chiave di genere, e che ho usato la parola “femmina” sia perché volevo usare una parola provocatoria e che indicasse discontinuità, sia per altri 3 motivi che sviluppo nel libro. Il primo è che al lavoro del futuro servono sempre più competenze soft, stereotipicamente attribuite alle donne. Il secondo è che lo scardinamento di tempi, spazi, identità e relazioni nel mondo del lavoro ha bisogno di categorie meno “machiste” (collaborazione vs competizione; fiducia vs controllo; vulnerabilità vs infallibilità; duttilità vs rigidità, solo per fare qualche esempio). Il terzo è che serviva a mio avviso una narrativa che mettesse al centro le persone e le loro storie, e non solo quadri macroeconomici e indagini statistiche. Un modo di comunicare più “di cucchiaio” che “di coltello”.

Divario di genere e mondo del lavoro: per sua esperienza, quanto costa il gender pay gap nel mercato del lavoro italiano? Quali soluzioni bisognerebbe optare per migliorare la situazione?

Il gender pay gap in Italia parte ancora più a monte, con una scarsa partecipazione al mercato del lavoro delle donne, un loro sotto impiego, un forte sbilanciamento nei compiti di cura, un mancato raggiungimento dei ruoli apicali e una presenza limitata nei settori e nelle funzioni più strategiche (e remunerative) delle aziende. Bisogna agire almeno su 4 fronti per migliorare la situazione: lavorare su cultura e consapevolezza e role modelling (gli ambiti dove mi impegno di più direttamente), sulla formazione, sulla diversa distribuzione dei carichi di cura e sull’aumento dei servizi di welfare.

La precarietà e i bassi stipendi nel mercato del lavoro italiano portano sempre più giovani a una fuga all’estero. A quali Paesi esteri dovremmo ispirarci per un modus operandi più attrattivo e sostenibile?

Io credo che sia molto complesso fare comparazioni tra mercati del lavoro differenti. La stessa Italia ha al suo interno numerosi mercati del lavoro e pensare di importare il welfare dai Paesi nordici o l’innovazione dal Baltico, da Israele o dalla Silicon Valley equivarrebbe a mio avviso a un trapianto con grossi rischi di rigetto. Questo non significa che non si possa essere più attrattivi sostenibili, ma credo che dovremmo trovare una ricetta davvero “Made in Italy”, in primis investendo in tecnologia e formazione per aumentare la produttività. Che è il vero problema del nostro Paese, e ciò che determina salari bassi, immobilismo e culture manageriali ancorate al ‘900.

Quali suggerimenti darebbe ai professionisti o alle giovani professioniste che vogliono percorrere le sue orme?

Tutti i lavori che ho fatto non esistevano qualche anno prima che effettivamente mi trovassi a svolgerli. Si è trattato sia di un grande privilegio trovarsi sull’onda dell’innovazione, ma anche il frutto della precisa volontà di non “fare il compitino”, ma costruire quella funzione attorno a me e al mio team, personalizzandola a seconda delle esigenze del business e del periodo storico e delle trasformazioni che si stavano affacciando.

Ci può indicare tre profili di professionisti/e attivisti/e che sono una fonte di ispirazione e/o un punto di riferimento valoriale e culturale per lei?

Marco Bentivogli, presidente di Base, ex leader sindacale e saggista, per la sua visione e caparbietà. Arianna Huffington, per le sue mille vite professionali e per essersi infine dedicata al benessere sui luoghi di lavoro. Michela Murgia, per quanto non fossi sempre allineata alle sue esternazioni, per il suo coraggio e per la sua intelligenza.

Nei prossimi 5/10 anni, quali traguardi si spera vengano raggiunti nell’ambito di un “lavoro più sostenibile”?

Mi auguro saranno almeno tre. Il primo riguarda una maggiore inclusione e valorizzazione delle unicità di ciascuna persona, sarebbe una vittoria tanto per i singoli quanto per le organizzazioni. Il secondo riguarda una più equa distribuzione della ricchezza, a cui spero si accompagni anche una meno accentuata tensione al consumo. Il terzo è sul punto di equilibrio che ognuno dovrà saper trovare tra vita e lavoro, dopo che quest’ultimo è sconfinato nella prima e con l’avvento di un’intelligenza artificiale sempre più sofisticata, che potrà lasciarci concentrare su ciò che è veramente di valore.

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