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Moda sostenibile: anche aziende e Governi devono essere più responsabili

La creative consultant e sustainable fashion specialist Silvia Stella Osella ha spiegato a La Svolta perché è importante diventare consumatori più attenti: negli ultimi anni, «c’è stato il passaggio da fast a ultra fast fashion: è fondamentale porre un freno»
La creative consultant e sustainable fashion specialist Silvia Stella Osella
La creative consultant e sustainable fashion specialist Silvia Stella Osella
Tempo di lettura 7 min lettura
27 marzo 2024 Aggiornato alle 10:00

Fin dal primo giorno, La Svolta si è occupata di raccontare i grandi cambiamenti in corso nel mondo, prestando particolare attenzione all’ambiente, ai diritti, all’innovazione sociale, culturale e tecnologica, dando voce soprattutto ai giovani e alle donne, nelle cui mani è riposto il futuro, a partire dalla transizione ecologica.

Per fare questo, vuole dare spazio e parola a professionisti e professioniste impegnate nel sociale, fonti di ispirazione, che con la loro visione e intraprendenza ogni giorno si impegnano a far rete e a creare progetti di crescita, per migliorare il benessere della comunità.

Ha quindi intervistato Silvia Stella Osella, creative consultant che, dal 2008, porta avanti la ricerca della sostenibilità nella filiera moda. L’impatto ambientale e sociale collegato ai settori in cui opera, infatti, è da sempre una sua priorità: Osella ha contribuito alla fondazione di uno dei primi marchi europei di abbigliamento totalmente tracciabile, e ora collabora con numerosi gruppi e startup per “scrivere” un nuovo capitolo della storia del settore moda; nel 2015, inoltre, ha aperto il suo studio a Milano, dopo aver lavorato per anni per alcune tra le più importanti aziende tessili in Europa.

Chi è Silvia Stella Osella? Quali sono i traguardi di cui è più orgogliosa?

Silvia è una persona da sempre molto curiosa rispetto a ciò che la circonda. È quindi forse per questo che ho cominciato, dopo alcuni anni nel settore tessile, a interrogarmi profondamente rispetto ai processi e all’impatto del settore della moda e, in ultimo, sul mio lavoro. Quello che faccio oggi è forse quello di cui sono più orgogliosa: aver aperto un mio studio di consulenza in cui riesco a coniugare il mio lavoro, la parte più creativa e di ricerca, che ho sempre amato, con i miei valori, la mia etica.

Si ricorda quando e per quale “battaglia” ha iniziato a essere un’attivista per la sostenibilità ambientale?

Non so se “attivista” sia il termine più adatto a descrivermi, perché se in effetti sono fermamente convinta che un profondo cambiamento sia assolutamente necessario nel settore della moda, il mio approccio è sempre stato estremamente dolce, e fortemente connesso alla conoscenza. Un punto di svolta fondamentale per me è stato vedere in prima persona l’enorme spreco generato dall’industria in cui lavoravo: erano gli anni in cui il fast fashion stava letteralmente esplodendo, e quotidianamente assistevo a enormi sprechi, a cominciare dai tessuti. Ho cominciato allora a chiedermi se ci fossero altre strade, e da lì ho rimesso in discussione tutto ciò che avevo imparato fino a quel momento.

Lei si definisce creative consultant e sustainable fashion specialist. In cosa consiste il suo lavoro?

Dal 2015, quando ho aperto il mio studio di consulenza a Milano, affianco sia grossi brand che piccole realtà e startup come consulente e mentor, cerco di proporre alternative più efficienti e meno impattanti, senza compromettere l’aspetto del design. Parallelamente insegno, scrivo, divulgo, studio. Insomma, la sostenibilità nella moda è sempre nei miei pensieri!

Come possiamo diventare consumatori più attenti quando parliamo di moda? Quali materiali dobbiamo scegliere e quali scartare?

Credo che, innanzitutto, si debba partire da un grande presupposto: oggi viene messa moltissima pressione sul consumatore finale che, certo, può sicuramente fare la sua parte (in primis, mandando un chiaro messaggio rispetto al suo interesse su determinate tematiche), ma che può arrivare solo fino a un certo punto. Sono invece le aziende, e ancora più in alto i Governi, a essere messi ancora troppo poco davanti alle loro responsabilità. A mio avviso i consumatori dovrebbero essere tutelati su questo fronte, esattamente come avviene in settori come quello alimentare o cosmetico. Va inoltre tenuto presente che ognuno di noi parte da condizioni socio-culturali ed economiche diverse. Sicuramente, un’azione molto semplice e alla portata di tutti è quella di prestare più attenzione all’etichetta, che può essere spunto per cominciare a farci delle domande rispetto a ciò che indossiamo: che materiali vengono usati? Li conosco? Che cosa sono esattamente? Da dove arriva il capo?

L’Italia a che punto è nel mondo della moda sostenibile? A quali Paesi esteri dovremmo ispirarci?

L’Italia ha, da un lato, un’enorme ricchezza: un tessuto fittissimo di piccole imprese che tramandano saperi e tecniche artigianali di generazione in generazione. Questo porta con sé una vicinanza alla filiera, alla fibre, alle tecniche: molti di noi hanno probabilmente qualcuno in famiglia che è cresciuto vicino a un distretto tessile, conciario, produttivo; eppure, non siamo mai stati tanto sconnessi quanto oggi dalla storia e dalle persone dietro ai capi che indossiamo. La Francia, in questo senso, sta portando avanti iniziative davvero meritevoli, soprattutto per quel che riguarda l’utilizzo di espressioni fuorvianti; la speranza è in quello che porterà a livello comunitario la Strategia Europea per il Tessile, su cui l’Unione Europea sta lavorando da diversi anni.

Quali suggerimenti darebbe ai professionisti o alle professioniste che vorrebbero percorrere le sue orme?

Mi ricollego alla prima domanda: credo sia impossibile fare questo lavoro senza una buona dose di curiosità, che è il motore che porta a farsi domande, sempre, a ricercare continuamente nuove strade e possibili soluzioni; a non focalizzarsi sul punto d’arrivo ma sul processo, mettendosi spesso in discussione, imparando da chi si incontra lungo il percorso, a qualsiasi età.

Quali sono state le risorse o le persone che l’hanno supportata o ispirata nel suo attivismo per la consapevolezza sociale?

Quando ho cominciato a interessarmi a queste tematiche, attorno al 2008, ricordo di essermi sentita molto sola nella mia visione: all’epoca non si parlava quasi di queste tematiche, ed era molto frustrante non potermi confrontare con altri professionisti. Da allora però le cose sono cambiate: non ho mai smesso di creare connessioni con persone accomunate dalla volontà di cercare, collettivamente, nuove soluzioni. Paradossalmente, l’ispirazione più grande è arrivata dalla riscoperta di testi che già negli anni ‘60 e ‘70 teorizzavano la centralità del ruolo del designer nell’ottica di una progettazione efficiente e consapevole, da Enzo Mari a Bruno Munari e Victor Papanek; o più recentemente, Alice Rawsthorn.

Ci può indicare tre profili di professionisti/e attivisti/e che sono una fonte di ispirazione e/o un punto di riferimento valoriale e culturale per lei?

Li Edelkoort, forse la trend forecaster più visionaria mai esistita. Céline Seeman, founder di The Slow Factory, una no profit che opera nell’intersezione tra ambientalismo e giustizia sociale. Alden Wicker, di cui apprezzo molto il lavoro di giornalismo investigativo sull’impatto della moda.

Nei prossimi cinque o dieci anni, quali traguardi spera vengano raggiunti nell’ambito della moda sostenibile?

Possono sembrare tanti anni, in realtà sappiamo essere un periodo decisamente breve per permetterci di assistere a radicali cambi di scenario in un settore così complesso e articolato come quello della moda. Personalmente spero che venga affrontato in maniera più decisa quello che è obiettivamente il principale problema del settore, ovvero la sovrapproduzione. Gli ultimi anni hanno portato al passaggio da fast fashion a ultra fast fashion, ed è fondamentale trovare il modo per porre un freno a tutto questo. In secondo luogo, credo fermamente che il consumatore debba essere più tutelato, creando l’opportunità di fare scelte più informate senza dover perdersi nella miriade di informazioni, spesso di difficile accesso.

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