Economia

Shein e Temu al centro di cause legali, ma registrano ricavi da record

Mentre i due colossi del fast-fashion toccano livelli di fatturato senza precedenti, i loro rapporti sono fragili (nel 2022 si sono citati reciprocamente in giudizio); inoltre, sono alle prese con accuse di plagio e scandali legati ai modelli di produzione
Credit: MART PRODUCTION 
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9 aprile 2024 Aggiornato alle 08:00

L’industria del fast-fashion è dominata sempre più da imprese cinesi: Shein e Pdd Holdings (casa madre di Temu) ne sono un esempio. La prima registra per il 2023 il record di utili per 2 miliardi di dollari, con un fatturato complessivo di 45 miliardi; la seconda ha raggiunto un giro d’affari di 247,6 miliardi di yuan (circa 34,2 miliardi di dollari), il 90% in più rispetto ai 130,5 miliardi del 2022. L’utile netto supera i 60 miliardi di yuan e anche in questo caso si parla di un salto del 90% dai precedenti 39,5 miliardi.

Shein, fondata nel 2008 dall’imprenditore cinese Chris Xu, è diventata in pochi anni molto popolare tra gli acquirenti della Generazione Z, grazie anche all’ingaggio di influencer e celebrità, oltre che per il basso prezzo degli abiti offerti. La società ha raggiunto una valutazione di 100 miliardi di dollari (93 miliardi di euro) in un round di raccolta fondi dell’aprile 2022, che l’ha resa la terza startup più preziosa al mondo.

La rapida ascesa di Shein, che lo scorso anno ha acquistato il marchio online Missguided dal Frasers Group di Mike Ashley dopo aver registrato un fatturato di 1,1 miliardi di sterline nel 2022 in Gran Bretagna, ha aumentato la pressione sui produttori di moda online britannici, tra i quali Asos e Boohoo. La startup cinese sta infatti guadagnando terreno proprio oltremanica, mentre i gruppi digitali sono alle prese con una contrazione del mercato dopo il boom nel periodo pandemico.

Shein trae in parte vantaggio anche dall’invio di merci direttamente agli acquirenti, anche nel Regno Unito e negli Stati Uniti, dalla Cina, riducendo così i costi legati alle tasse. La strategia si è tuttavia rivelata piuttosto controversa, e ora nel Regno Unito sono in molti a chiedere una revisione delle norme fiscali.

Oggi Shein si conferma tra le aziende di moda più redditizie al mondo, superando gli utili dei diretti concorrenti H&M, Next e Primark, che a differenza del marchio cinese dispongono anche di negozi fisici. A registrare profitti superiori nel settore è solo Inditex (storica casa madre spagnola di brand quali Bershka, Pull&Bear, Zara, Massimo Dutti e Oysho) che ha chiuso l’esercizio fiscale del 2023 con utili pari a 5,381 miliardi di euro (in aumento del 30% rispetto al 2022), e con quasi 36 miliardi di euro di entrate.

E adesso, il colosso cinese punta alla quotazione in borsa. Il cancelliere britannico Jeremy Hunt avrebbe infatti avuto colloqui con il capo di Shein, Donald Tang, per cercare di convincerlo a quotare la società alla Borsa di Londra. Si ritiene che la società stia prendendo in considerazione proprio la capitale inglese in quanto ritenga ormai improbabile che la Securities and Exchange Commission statunitense approvi la sua offerta pubblica iniziale.

Se l’accordo andasse in porto, sarebbe una delle più grandi quotazioni societarie di sempre a Londra, con una valutazione per 90 miliardi di dollari. Ma si tratta ancora di un’ipotesi. Questo perché Shein è in attesa dell’approvazione da parte delle autorità competenti di Pechino e Washington della richiesta di quotazione, e mentre la China Securities Regulatory Commission e la Cyberspace Administration of China dovrebbero dare il via libera nelle prossime settimane, la richiesta giace da mesi.

Nel frattempo, anche Pdd Holdings registra dati record. Lanciata negli Usa nel 2022 prima di espandersi in Canada, Europa, Nuova Zelanda e Australia negli ultimi tempi, Temu è riuscita in pochissimo tempo a registrare enormi profitti riuscendo a produrre mantenendo prezzi bassissimi.

Si stima poi che l’azienda abbia conquistato più della metà della quota di mercato americano proprio di Shein, suo diretto competitor. Non sorprende che i rapporti tra le due imprese risultino essere piuttosto conflittuali. Shein è stata recentemente tacciata di “intimidazione in stile mafioso” nei confronti dei fornitori in una causa intentata da Temu, con l’accusa di aver tentato di “interferire illegalmente nei propri affari”. Tra le accuse, spicca quella secondo cui Shein avrebbe convocato nei suoi uffici i fornitori cinesi che riteneva lavorassero con Temu, dove sarebbero stati “falsamente imprigionati” per circa 10 ore. Ai venditori sarebbero stati confiscati anche i telefoni cellulari e sarebbero stati minacciati di sanzioni per aver fatto affari con la rivale.

Shein è anche accusata di aver abusato delle leggi sulla proprietà intellettuale e di aver preso di mira il personale chiave del marketing e della pubblicità di Temu. Riguardo ciò, l’impresa ha risposto descrivendo la causa come “priva di merito” e ha promesso di difendersi nelle opportune sedi. Già nel 2022, le due aziende si erano reciprocamente citate in giudizio dinanzi ai tribunali americani: da un lato, Shein aveva accusato Temu di aver chiesto a un gruppo di influencer di pubblicare commenti denigratori sull’attività; dall’altro lato, Temu aveva accusato la rivale di violare le leggi antitrust nei suoi rapporti con i produttori di abbigliamento.

Non solo: le due imprese sono anche al centro di altri scandali e cause giudiziarie. Shein ha subito accuse di plagio da brand quali Uniqlo, H&M e tre designer. La casa giapponese ha evidenziato come Shein abbia riproposto sul proprio sito un modello contraffatto della Round Mini Shoulder, borsa di tendenza prodotta proprio da Uniqlo, sostenendo che “la forma dei prodotti contraffatti venduti da Shein somiglia molto a quella del suo stesso prodotto”, e aggiungendo che la vendita di questi cloni “mina in modo significativo l’elevato livello di fiducia del clienti”.

H&M ha invece accusato la casa cinese di aver copiato i propri disegni e aver commercializzato una riproduzione non autorizzata di propri prodotti protetti da copyright. Infine, l’illustratrice Krista Perry, la designer Larissa Martinez e l’artista Jay Baron sostengono nella loro querela per plagio presentata al tribunale della California che «l’algoritmo di design di Shein non è in grado di funzionare senza generare copie esatte del lavoro altrui che possono danneggiare gravemente la carriera di un designer indipendente, soprattutto perché l’intelligenza artificiale usata da Shein è sufficientemente brillante da rubare i pezzi di design con il più alto valore commerciale».

Pdd, invece, è al centro di uno scandalo legato a un’inchiesta condotta dal Financial Times, che ha raccolto le testimonianze di 10 lavoratori che fanno luce sulle modalità coercitive dell’azienda, la quale avrebbe perseguito sistematicamente gli ex dipendenti attraverso intercettazioni e pressioni legali con il pretesto della clausola di non competizione tra aziende rivali, inserita (illegalmente) nei contratti di lavoro di numerosissimi dipendenti.

La legge cinese stabilisce che gli accordi di non concorrenza possono essere applicati solo al personale con ruoli dirigenziali o tecnici di alto livello; tuttavia, è inclusa anche una clausola che copre “coloro che hanno obblighi di riservatezza”, che secondo gli avvocati le società locali di e-commerce hanno sfruttato. Molte aziende chiedono a tutti i propri dipendenti di firmare accordi di non concorrenza quando iniziano a lavorare. In Cina, l’azienda è nota per la sua paga elevata, sebbene gli impieghi prevedano orari estenuanti 7 giorni su 7 e arrivino a 14 ore lavorative giornaliere. Secondo gli esperti, la vicenda di Pinduoduo si tratterebbe dell’ennesimo segnale di tossicità all’interno dei grandi conglomerati tecnologici cinesi.

Ma già altri lavoratori avevano lamentato condizioni simili. Circa 20 ex dipendenti di Pdd, principalmente impiegati in lavori di basso livello, hanno espresso lamentele sui social media cinesi dopo che la società li ha colpiti con sanzioni di non concorrenza. Dal canto suo, Pdd ha affermato di utilizzare accordi di non concorrenza in “maniera limitata e responsabile” e di attenersi rigorosamente alla legge e alle migliori pratiche del settore. Gli ex dipendenti portati in tribunale per presunte violazioni della concorrenza nei 6 mesi fino a febbraio rappresentavano meno del 2% dei lavoratori che hanno lasciato l’azienda durante il periodo, ha affermato l’impresa. Pdd, che contava 13.000 dipendenti alla fine del 2022, ha affermato che solo una piccola percentuale dei lavoratori in uscita è vincolata da accordi di non concorrenza, che a suo dire si basano sulla rilevanza del loro lavoro per i segreti commerciali dell’azienda piuttosto che sull’anzianità o sugli anni di esperienza lavorativa.

Intanto, l’industria fast fashion potrebbe presto essere arginata. In Francia, l’Assemblea Nazionale ha approvato il disegno di legge per imporre un sovrapprezzo ai venditori di fast-fashion nell’Esagono. Il sovrapprezzo iniziale sarà di 5 euro per tutti i capi prodotti in questo settore, e potrà arrivare fino a 10 euro per un singolo capo di abbigliamento entro il 2030, sul modello della tassa già applicata in Francia al settore automobilistico (cioè attraverso la Responsabilità Estesa del Produttore, che incoraggia le imprese verso una filiera più sostenibile).

La motivazione è chiara: mettere in ginocchio la vendita e l’acquisto di abiti a basso costo e con un alto impatto sul Pianeta. Adesso, spetterà al Senato francese approvare in via definitiva il testo, che potrebbe rappresentare un’apripista per proposte simili in Europa, ma non solo. E chissà che tra scandali, azioni legali e politiche di contenimento, il fast-fashion non sia prossimo a una brusca frenata, dopo una crescita così veloce e imponente, con Shein e Temu che potrebbero essere presto le prime a pagare le conseguenze di un modello produttivo insostenibile.

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