Diritti

Gambia: la campagna social per dire basta alle mutilazioni genitali femminili

Dopo aver subito la Mgf ed essersi rifiutata di praticarla su altre ragazze, Maimouna Jawo è fuggita nel Regno Unito: da qui, grazie al suo attivismo su Facebook, cerca di convincere donne e africane a ribellarsi
Credit: ALTEREDSNAPS
Alessia Ferri
Alessia Ferri giornalista
Tempo di lettura 5 min lettura
10 aprile 2024 Aggiornato alle 16:00

Le mutilazioni genitali femminili sono purtroppo ancora largamente diffuse. Secondo l’Oms più di 200 milioni di ragazze e donne oggi le hanno subite in 30 Paesi dell’Africa, del Medio Oriente e dell’Asia per mano molto spesso delle madri, vittime a loro volta di una cultura patriarcale e maschilista che le spinge a infliggere lo stesso dolore provato sulla loro pelle a bambine e adolescenti, nella convinzione di dar loro in questo modo il “pass” per l’accettazione da parte della comunità.

Spezzare certe catene sociali è difficile ma c’è chi prova a farlo, come la 50enne Maimouna Jawo originaria del Gambia, che dopo essere stata lei stessa sottoposta a Mgf si è rifiutata di diventare una “tagliatrice” ed è scappata nel Regno Unito dove oggi vive. Pur lontana dal suo Paese non ha dimenticato cosa significasse per una donna vivere lì e per questo ha deciso di lanciare una campagna social per informare decine di migliaia di ragazze della pericolosità delle mutilazioni genitali e del rischio che corrono se accettano di sottoporvisi.

La campagna è attiva su Facebook ed è scritta in mandinka, la lingua più parlata in Gambia, una scelta che non consente di rendere i messaggi veicolati fruibili a tutti con dimestichezza, ma certamente di raggiungere in modo diretto molte ragazze originarie del Paese. E con loro le madri, che insieme ai padri portano avanti questa tradizione.

L’iniziativa di Maimouna Jawo si unisce al programma globale portato avanti dal Fondo delle Nazioni Unite per la popolazione e dall’Unicef per accelerare l’eliminazione delle mutilazioni genitali femminili, purtroppo diffuse anche in Europa, dove nel 2021 vivevano 600.000 ragazze e donne che erano state sottoposte alla pratica.

Alla base di questo rito non ci sono ovviamente ragioni mediche ma altre motivazioni, che variano da una regione all’altra ma che, seppur con diverse sfumature, ruotano tutte attorno alla volontà di dominare il corpo femminile, controllandone la sessualità e inibendone il piacere, che rimane così di prerogativa maschile.

Esistono 4 tipologie di mutilazioni genitali femminili: la rimozione parziale o totale del glande clitorideo e/o del prepuzio/cappuccio clitorideo; la rimozione parziale o totale del glande clitorideo e delle piccole labbra, con o senza rimozione delle grandi labbra; l’infibulazione, ovvero il restringimento dell’apertura vaginale attraverso la creazione di un sigillo di copertura che si forma tagliando e riposizionando le piccole labbra, o le grandi labbra, a volte tramite cucitura; infine, altre procedure dannose per i genitali femminili. Tutte sono riconosciute a livello internazionale come una violazione dei diritti umani delle ragazze e delle donne.

Consapevole di ciò da tempo, Maimouna Jawo ha iniziato la sua battaglia, che 10 anni fa l’ha anche portata a essere protagonista di un documentario della Bbc sulla situazione in Gambia. Probabilmente anche grazie all’enorme successo di quel reportage, nel 2015 nel Paese è stato approvato il Women’s Amendment Act, che criminalizzava le Mgf, rendendole punibili fino a 3 anni di carcere.

Tuttavia, in molte zone, soprattutto rurali, il rito viene perpetuato esattamente come prima e sono ancora tantissime le ragazze costrette a un destino come quello di Jawo: mutilate prima, mutilatrici dopo. L’iniziazione delle giovani praticanti inizia prestissimo, e fin dall’età di 12 anni le bambine sanno che dovranno non solo sottoporsi a quel dolore inaudito ma anche continuare il lavoro portato avanti da madri e nonne.

Anche Jawo è stata costretta a farlo, ma un giorno assistendo una donna che mutilava la figlia di 5 anni ha giurato silenziosamente che non avrebbe mai praticato la Mgf, anche se il rifiuto avrebbe messo a rischio la sua vita. Fuggita nel Regno Unito, ha chiesto e ottenuto asilo e ora è da lì che spera di aiutare tante donne africane e liberarsi dall’incubo delle mutilazioni, consapevole che la strada da fare sia ancora tantissima.

Anche se l’approvazione delle leggi contro le Mgf era stata salutata come un, seppur flebile, passo in avanti nella giusta direzione, la realtà in Gambia sembra infatti ben diversa, non solo perché si stima che il 73% delle donne di età compresa tra i 15 e i 49 anni sia stato sottoposto a questa pratica, ma anche perché il 18 marzo 2024 il Governo ha votato con 42 voti favorevoli e 4 contrari un nuovo disegno di legge che se approvato definitivamente abrogherebbe il divieto in vigore da quasi 10 anni.

«Lotto contro le Mgf da così tanto tempo e ora che c’è la possibilità che il divieto nel mio Paese possa essere revocato, mi sento come se la mia battaglia stesse tornando al punto di partenza - ha detto Jawo, senza tuttavia pensare, nemmeno per un secondo, di arrendersi - Ciò che sta accadendo ora in Gambia è davvero spaventoso ma qualunque cosa faccia il Governo resterò dove mi trovavo ieri, dove mi trovo oggi e dove starò sempre su questo argomento. Il mio messaggio continua a essere no alle Mgf».

Oltre alla campagna, al momento sta lavorando segretamente con un gruppo di donne in alcuni villaggi del Gambia per aumentare la consapevolezza sui pericoli delle mutilazioni e sui danni fisici e mentali che possono causare. Il suo sogno è di costruire un movimento sempre più potente, che con presidi sul territorio e attivismo sui social arrivi a ogni donna del Paese e riesca finalmente a restituire alle nuove generazioni quel futuro che in pochi secondi un rito barbaro porta via loro per sempre.

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