Diritti

Come i social network hanno liberato alcune donne dalla schiavitù

Un’attivista per i diritti umani e una donna del Malawi vittima in Oman di abusi e segregazione sul posto di lavoro si sono incontrate in rete, dando vita a un movimento che ha ridato la libertà a moltissime lavoratrici
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28 aprile 2024 Aggiornato alle 11:00

Si parla spesso di quanto i social network possano avere effetti negativi sugli individui, creino vere e proprie dipendenze, scatenino campagne di pericolosa disinformazione, riducano i rapporti umani a scambi di chat o like. Se bene usati però questi strumenti di comunicazione possono anche essere un’arma efficace per sprigionare energie positive, favorire curiosità, cultura, scambi, conoscenze, e liberare. Sì avete letto bene, liberare.

La storia che stiamo per raccontarvi narra di una liberazione dall’oppressione più abietta e documenta il riscatto da una schiavitù moderna attraverso Whatsapp e Facebook.

Le protagoniste sono due donne. La prima è una malawiana di poco più di 30 anni che, convinta da una sedicente organizzazione di collocamento lavorativo all’estero, paga una sonora quota e accetta di trasferirsi in Oman per svolgere l’attività di cameriera. Neanche il tempo di atterrare nella capitale Muscat e disfare le valige, che scopre di essere finita in una famiglia schiavista che la costringeva a orari di lavoro massacranti, sette giorni su sette.

La donna distrutta fisicamente e psicologicamente, dopo qualche settimana, comprende che la schiavitù lavorativa era solo un aspetto della terribile situazione in cui era finita. Il capo, a neanche un mese dal suo arrivo, comincia ad abusare sessualmente di lei senza lasciarle scampo: se si fosse rifiutata avrebbe azionato la pistola che portava con sé mentre consumava gli atti violenti. «Non c’era solo lui - racconta la ragazza nel reportage della BBC Africa Eye - portava gli amici e loro dopo lo pagavano». Al sesso si aggiungono botte, ferite, umiliazioni.

La seconda protagonista è Pililani Mombe Nyoni, 38 anni, anch’essa malawiana, attivista per i diritti umani. Vive a migliaia di chilometri di distanza dall’Oman, nello Stato americano del New Hampshire. Mentre è intenta a leggere i messaggi che passano sulla pagina Facebook della sua organizzazione, nota un post dal tono disperato: a scrivere, è la sua compatriota intrappolata a Muscat. Pililani capisce che la vicenda è molto seria. Si mette in contatto con la ragazza, le fa subito rimuovere il post su Facebook e le passa un numero WhatsApp gestito da lei a cui può segretamente rivolgersi per segnalare e chiedere aiuto.

Il numero circola tra le donne sfruttate in Oman e in poche ore, oltre a lei si fanno vive tante altre ragazze. Pililani allora organizza una chat segreta dedicata perché ha ben chiaro di essere di fronte a un traffico di esseri umani. Nel giro di qualche giorno decine di donne malawiane che lavorano come collaboratrici domestiche in Oman entrano nel gruppo WhatsApp, nel quale arrivano note audio, video e descrizioni dettagliate delle condizioni orribili in cui vivono. Molte di loro non dispongono più dei documenti perché il passaporto, in genere, viene sequestrato all’arrivo in Oman.

Le due protagoniste di questa storia, allora, comprendono che qualcosa può cambiare. La prima continua a diffondere il numero ad altre donne arrivando a coinvolgerne oltre 50, Pililani comincia a reperire e interloquire con le Ong che si occupano di traffico di esseri umani e conosce Do Bold, che ha il quartier generale in Grecia ma opera in molti luoghi del mondo. Il suo scopo principale nei Paesi del Golfo è identificare vittime di tratta o di lavoro forzato e negoziare con i datori il rilascio. Datori che, ha spiegato la fondatrice Ekaterina Sivolobova alla Bbc, «pagano un agente per fornirgli un lavoratore domestico. Per questo una delle sfide più comuni che affrontiamo è che il datore di lavoro o l’agente dicono: “Voglio i miei soldi indietro, poi lei può tornare a casa”».

La collaborazione tra la Ong, Pililani Mombe Nyoni e le stesse donne porta finalmente i primi risultati. Innanzitutto la prima donna a entrare in contatto con Pililani, dopo tre mesi riesce a tornare a casa. Poi, capito il meccanismo, l’attivista malawiana si rivolge alle autorità del suo Paese per far pressione sul governo affinché intervenga. L’associazione malawiana Centre for Democracy and Economic Development Initiatives, nel frattempo, lancia una vera e propria campagna di salvataggio di donne schiavizzate in Oman, chiedendo di riportarne a casa il maggior numero possibile.

Il governo del Malawi, che ha collaborato con Do Bold, dichiarerà in seguito, di aver speso più di 160.000 dollari per far tornare 54 donne dall’Oman. Molti di questo soldi, per quanto assurdo possa risultare, sono finiti ai datori di lavoro (da 1.000 a 2.000 dollari, ndr) perché non esiste nel Paese arabo un vero sistema di tutela per le lavoratrici domestiche e le garanzie del contratto che le donne firmano all’inizio sono tutte per chi le impiega, anche se si dimostra la riduzione in schiavitù. «In pratica - dice Sivolobova - con la firma del contratto la loro libertà è comprata. Ed è questo che mi preoccupa, come si può comprare la libertà di qualcun altro?»

Dietro la vicenda di Giorgina, di Eliza, di Happy (i nomi sono di fantasia) si celano quelle di centinaia di migliaia di altre. È la solita storia di ragazze (in aumento anche il fenomeno al maschile, ndr) nate e cresciute in contesti di miseria estrema, convinte a emigrare verso luoghi più ricchi per svolgere lavori umili ma dalla paga sicura che si ritrovano nell’incubo della tratta. Il fenomeno - molto sviluppato anche da noi in Italia dove ogni anno decine di migliaia di individui finiscono nelle maglie delle organizzazioni criminali e si ritrovano sui marciapiedi, a lavorare come schiavi nei campi e nelle fattorie della pianura pontina o delle campagne italiane, o chiusi in capannoni a ‘produrre’ per pochi euro al giorno - non conosce confini.

Come rivela un’indagine condotta nel 2023 da Do Bold, negli Stati arabi del Golfo, solo per citare l’area di cui ci stiamo occupando, si stima che ci siano circa due milioni di lavoratrici domestiche, quasi tutte vittime di tratta.

Il Malawi, invece, pur essendo straricco di risorse, cultura e capitale umano, è ancora oppresso da quella povertà, disoccupazione e limitato accesso ai servizi di base, che costringono tanti uomini e donne a partire, correndo rischi enormi per la propria vita. Come riferisce l’Afrobarometro, la preziosissima rete di ricerca di sondaggi panafricana, se si calcolano i punteggi dell’indice di povertà vissuta in riferimento alla mancanza di beni di prima necessità, si osserva che lo scorso anno, quasi quattro malawiani su 10 (37%) hanno sperimentato un’elevata povertà vissuta, mentre un altro 38% ha sperimentato una povertà vissuta moderata. Solo il 4% dei cittadini era esente da povertà vissuta.

Ma la storia di oggi, ha un lieto fine. Quella benedetta chat ha innescato un movimento virtuoso che ha portato tante donne alla liberazione e il governo del Malawi a una maggiore consapevolezza del fenomeno e una conseguente azione per prevenirlo e contrastarlo. Un portavoce del governo di Lilongwe (capitale del Malawi) ha dichiarato alla Bbc che sta sviluppando nuove regole «per garantire una migrazione sicura, ordinata e regolare, a beneficio dei migranti, delle loro famiglie e del Paese in generale».

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