Il silos di Trieste
Il silos di Trieste (Ilaria Potenza)
Diritti

Dalla rotta balcanica al silos di Trieste: storie di abbandono e nuove vite

«Appena ho visto il cartello “Italia”, ho tirato un sospiro di sollievo», confessa Ahmad a La Svolta, uno dei tanti migranti che giungono nel Comune friulano: a pochi metri dalla stazione vivono circa 200 persone, in tende da campeggio sommerse dal fango
di Ilaria Potenza
Tempo di lettura 8 min lettura
5 marzo 2024 Aggiornato alle 08:00

Le gambe corrono e spingono valigie di colori diversi. Ci sono telefoni a cui raccontare una partenza, voci che aspettano, invece di sentire che si è tornati a casa.

La Svolta è alla stazione di Trieste: una stazione ferroviaria come tante altre con una piazzetta e un porticato su uno due suoi lati.

Qui è facile incontrare ragazzi che trasportano taniche d’acqua, mentre di sera li si vede in fila in attesa di un piatto caldo. Abitano a pochi metri da questa zona di passaggio, in un silos fatto di strati di cemento e fango. La loro casa è una tenda da campeggio che resiste alla bora e alla pioggia. Toppe di stoffa ne definiscono il profilo, che viene a tratti interrotto da file di spago che sorreggono abiti stesi ad asciugare.

Nel silos si sta vicini per vincere il freddo, in una sfida continua per resistere alla disumanizzazione. In questo cantiere mai terminato, fatto da volte altissime e finestre rotte dall’usura, vivono circa 200 migranti arrivati attraverso la rotta balcanica che cercano a Trieste un luogo di accoglienza dopo la fuga da persecuzioni e guerre nei loro Paesi di origine.

La maggior parte ha tra i 20 e i 30 anni; sono quasi tutti maschi: la rotta balcanica è rischiosa, anche dal punto di vista fisico, per questo gli arrivi di donne e famiglie sono rari. I ragazzi e gli uomini partono quindi da soli o in piccoli gruppi, dal Bangladesh, dal Pakistan o dalla Siria e attraversano altri Paesi per arrivare poi nei Balcani. Proseguono su un corridoio che si snoda tra Bulgaria, Romania, Slovenia e Croazia per raggiungere infine l’Italia. Da gennaio a luglio 2023 sono arrivate a Trieste 7.890 persone (secondo i dati del Ministero dell’Interno). Gli arrivi sono aumentati anche durante i mesi invernali, quando solitamente la rotta è meno trafficata, principalmente per il freddo: tra gennaio e marzo dello scorso anno sono arrivate 2.051 persone, oltre il quintuplo delle 370 registrate nello stesso periodo del 2022. Il loro viaggio è pericoloso, segnato da continui respingimenti avvenuti anche all’interno dei confini dell’Unione europea.

La scelta di Trieste è dovuta soprattutto alla sua posizione geografica centrale: la città diventa quindi una delle tappe necessarie sia per coloro che chiedono immediatamente asilo dopo il loro arrivo in Italia, che per chi intende raggiungere altre destinazioni europee. Chi riesce a viaggiare fino al confine triestino zoppica, reggendosi in piedi a fatica; c’è chi non ha neanche più le scarpe dopo averle perse durante il tragitto. Tra le tende del silos si prova a reinventare la quotidianità, con sale da pranzo realizzate con sgabelli di fortuna o poltrone recuperate all’angolo di qualche cassonetto. Sono gli spazi in cui ritrovarsi per condividere i pasti, raccontandosi giri e storie di vita.

Nel frattempo c’è chi cucina il chapati, una piadina tipica del Pakistan, mentre qualcuno fa rientro dall’Ics (Consorzio italiano di solidarietà) dopo aver fatto un bagno e caricato la batteria del cellulare. Nel silos infatti non è possibile usare acqua e corrente elettrica: è una cattedrale dell’abbandono in pieno centro città e basta una notte di pioggia per renderlo una poltiglia di fango attraversata dai ratti.

Ahmad, 32 anni, viene dal Bangladesh e vorrebbe trasferirsi in Olanda, anche se ha già un fratello in Germania e una sorella in Norvegia, ma «lì è diventato difficile fare domanda d’asilo», spiega a La Svolta mentre prepara la macchinetta del caffè e ripercorre alcuni momenti del suo viaggio. «Tra i miei amici sono stato l’ultimo a partire. Per ogni tappa ho avuto bisogno di un trafficante diverso. Nell’ultimo tratto mi hanno chiesto 2.000 euro, ma in totale ne ho pagati circa 12.000. Non appena ho visto il cartello con scritto Italia, ho tirato un sospiro di sollievo. Anche se la felicità è un’altra cosa».

Quando il bel tempo lo permette, i ragazzi si ritrovano in uno spazio all’aperto che congiunge i diversi ambienti del silos per giocare a calcio o ballare danze tradizionali. In momenti di spensieratezza si scattano selfie di gruppo da inviare a casa per dimostrare di essere vivi. Altri ancora, sfiniti, si addormentano sull’erba trapuntata da spazzatura.

Ogni giorno, alle 6:00, un gruppo di volontari si dà appuntamento per offrire assistenza. Sul pavimento sono poggiati borsoni da cui vengono estratte creme per piaghe e dermatiti che dopo settimane di cammino sono comuni. La prima a dare l’esempio è stata Lorena Fornasir, dell’Associazione Linea d’ombra. Da 2 anni medica le ferite ai piedi dei migranti, affiancata da medici volontari. «I piedi sostengono l’intera persona, senza di loro non vai da nessuna parte. Ne ho capito la vera importanza durante un viaggio in Bosnia, quando ho conosciuto un ragazzo tunisino che era stato respinto al confine dalla polizia croata – racconta Fornasir a La Svolta – l’hanno rispedito indietro, togliendogli scarpe e vestiti, in pieno inverno».

Sulle violenze commesse alla frontiera dagli agenti della Croazia, tra gli altri, si è espressa Amnesty International che le ha definite “un’escalation orribile di violazioni di diritti umani”. E c’è chi porta ancora addosso i segni di quegli abusi, con le cicatrici non ancora rimarginate provocate da “tatuaggi” con sbarre di ferro incandescente.

Secondo il report Vite abbandonate prodotto dall’Ics, la maggior parte dei migranti arrivati nel silos triestino nel 2023 è in fuga dall’Afghanistan. Si tratta di un dato in linea con quanto riportato anche dall’Agenzia dell’Unione Europea per l’Asilo, cui fanno seguito i ragazzi di origine pakistana che abbandonano il Paese non soltanto per la sua grave instabilità socio-politica, ma anche per l’esposizione di questa terra a eventi climatici estremi. Nell’estate del 2022, per esempio, forti inondazioni hanno distrutto la maggior parte dei raccolti e dei campi coltivati, impattando sulla vita di oltre 33 milioni di persone.

È esploso così il fenomeno dei richiedenti asilo abbandonati in strada, con attese dai 30 ai 70 giorni per accedere alla prima accoglienza. Il motivo va però cercato in un concetto più ampio. L’intensificarsi degli arrivi in tutta Italia, in modo uniforme, ha messo in crisi l’intero sistema di accoglienza del nostro Paese. Secondo i dati del Ministero dell’Interno, nella prima metà del 2023 sono arrivate oltre 118.000 persone, quasi il doppio delle 65.000 arrivate nel 2022 e il triplo rispetto al 2021.

Negli ultimi mesi le strutture di accoglienza su tutto il territorio nazionale si sono riempite rapidamente, e per questo il meccanismo dei ricollocamenti su cui anche Trieste faceva affidamento si è bloccato: questa situazione sembra quasi un implicito incoraggiamento per i migranti a lasciare l’Italia per spostarsi verso altri Paesi in modo irregolare, dato che secondo le norme europee del Regolamento di Dublino il Paese di primo arrivo dovrebbe essere quello responsabile delle pratiche di accoglienza.

Secondo le associazioni attive sul territorio, per tornare a funzionare correttamente il sistema di accoglienza di Trieste avrebbe bisogno di più sostegno da parte degli enti pubblici locali e nazionali. Per risolvere almeno parzialmente il problema, il Comune ha proposto di collocare i migranti nelle caserme vuote presenti sul territorio. Per questo però servirebbe un intervento del Governo.

Per la maggior parte dei migranti, quindi, Trieste è l’inizio di un altro viaggio verso il nord dell’Europa. Altri invece rimangono qui, come Alì, 28 anni dal Pakistan, che ricorda il momento del suo arrivo nel 2016, quando è stato costretto a dormire per strada. Grazie all’aiuto delle associazioni del territorio, per cui adesso fa il volontario, è riuscito a studiare e oggi lavora in una residenza per anziani. Fa spesso visita ai migranti del silos, consegna cibo e legna per riscaldarsi, ma soprattutto rappresenta per loro l’esempio di chi ha dato una direzione diversa alla propria vita. E testimonia che anche a partire dal freddo, dal fango, dagli occhi bassi della gente ci si può inventare una prospettiva nuova.

I ragazzi del silos, quando Alì e altri volontari vanno a trovarli, preparano il tè e lo servono con i biscotti, ma in realtà offrono qualcosa di più: un’occasione per stringersi, riscoprendosi comunità in un modo che, forse, può ancora appartenere a questo tempo.

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