Diritti

I was little like this: storia di un piccolo migrante in viaggio da quando aveva 3 anni

I passaggi sul confine alpino tra Italia e Francia si sono moltiplicati con l’arrivo di numerose famiglie dalla rotta balcanica. Cercano di raggiungere - dal Piemonte - la Francia, la Germania e il nord Europa, dove a volte sono arrivati i loro cari. Siamo andati a trovarli al confine.
Chiara Manetti
Chiara Manetti giornalista
Tempo di lettura 5 min lettura
1 gennaio 2022 Aggiornato alle 13:00

Il treno che parte da Torino e arriva alla banchina di Oulx costa poco più di 6 euro. “Quando salgo mi faccio già un’idea di quanti ospiti arriveranno al rifugio, ma con i controlli più stringenti per il Covid-19 si vedono meno migranti”: a raccontarlo è Federico Piazza, un medico volontario dell’Associazione Rainbow 4 Africa, 33enne. È specializzato in neurologia e dall’inizio di dicembre 2021 ha raggiunto la clinica di frontiera 4 volte: questa è la quinta, e ha già visitato tantissime persone di passaggio. “Arrivano dopo viaggi di 3, 5 mesi. Alcuni in realtà sono in cammino da anni”, spiega mentre si dirige verso la cancellata che lo divide dalla nuova sede, pronta per accogliere più persone della precedente: tra le montagne della Val Susa, infatti, è appena nato un nuovo rifugio per soccorrere e curare i migliaia di profughi in viaggio per attraversare il confine con la Francia. “La vecchia sede, a pochi passi da qui, era operativa dal 2018”, racconta Paolo Narcisi, presidente di Rainbow 4 Africa dal 2009. “All’inizio il rifugio Fraternità Massi ospitava una ventina di persone, poi abbiamo aggiunto dei moduli abitativi e progressivamente ci siamo ingranditi”. Ora la nuova struttura, una casa salesiana acquistata dalla Fondazione Magnetto e donata all’associazione Talita-Kum di don Luigi Chiampo, ne può accogliere 70. Si staglia, grigia, tra le montagne innevate.

“Prima di spostarci qui, nel periodo in cui è aumentato il flusso di arrivi, non sapevamo come fare: da marzo dell’anno scorso abbiamo registrato 9 mila persone, ma ne perdiamo circa un 30% che non vuole farsi segnare, o che sfugge o non viene neanche al rifugio” racconta Narcisi. “Probabilmente il 2021 ha visto passare almeno 12, 13 mila persone contro le 3 mila degli anni precedenti”. I passaggi sul confine alpino tra Italia e Francia si sono moltiplicati con l’arrivo di numerose famiglie dalla rotta balcanica. I migranti che arrivano a Oulx cercano di andare altrove, per raggiungere i familiari che, prima di loro, ci sono riusciti: hanno trovato una vita migliore e un lavoro in Germania, in Francia, nei Paesi del nord-Europa. Da Oulx si poteva partire con un bus per arrivare al Monginevro - uno dei principali valichi tra Italia e Francia - ma il mezzo è stato soppresso. Ora bisogna raggiungere a piedi le piste da sci di fondo di Claviere, il comune piemontese a un passo dalla Gendarmeria - il corpo di polizia francese - per poi tentare la strada dei boschi per più di 20 chilometri e passare il Monginevro.

Da qualche giorno una famiglia è ospite della struttura, viene dall’Iraq. Il più piccolo ha 6 anni, e ha passato metà della sua vita in viaggio: “I was like this” dice ridendo, mentre abbassa la mano all’altezza del suo bacino. Lui, sua sorella, il fratello e il padre hanno attraversato la Turchia, la Grecia, l’Albania, il Montenegro, la Bosnia, la Croazia, la Slovenia. E infine anche l’Italia, da Trieste a Milano, per poi arrivare a Oulx. Un viaggio infinito, iniziato nel 2018, con l’obiettivo raggiungere la madre e il fratello già in Germania. Nell’angolo della stanza c’è un ragazzo afghano: non conosce l’inglese. Non distante da lui, un giovane che arriva dalla Guinea e racconta di voler andare in Francia, dove vive suo fratello. Parla italiano, perché ha lavorato per un paio di anni a Vicenza come metalmeccanico, con un permesso di soggiorno per motivi umanitari: un permesso non rinnovato, seguito da un ricorso lasciato a metà dall’avvocato a cui si era affidato. A Vicenza ci era arrivato dopo un intero anno in viaggio: la prima parte su un barcone, con altre 120 persone, partendo dalla Libia quando la luna di mezzanotte illuminava la distesa scura del Mar Mediterraneo. Le coste della Sicilia le hanno toccate alle 2 di pomeriggio. Non è la prima volta che prova a passare la frontiera: ha fatto un tentativo anche a Ventimiglia, ma senza successo. “Ci voglio riprovare domani, verso l’1 di notte. Devo passare per forza, non posso rimanere qui. Anche se vorrei”.

Paolo Narcisi racconta che spesso arrivano donne incinte, o con bambini di poche settimane in braccio. Federico, il medico volontario, ne ha visitato uno di 6 mesi: “Scappano perché c’è la guerra. Fuggono per motivi politici, perché sono stati torturati, oppure hanno figli con patologie non curabili nel loro Paese e vengono qui in cerca di aiuto. Il Covid è l’ultimo dei loro problemi”. Molti hanno ricevuto la vaccinazione nei campi profughi intercettati nel loro cammino: “Ti dicono che sono entrati in Europa quando hanno visto Trieste”, spiega Narcisi, “perché in Croazia la polizia di frontiera è violenta. Il problema vero sarà tra 1 anno, quando arriveranno i profughi fuggiti dall’Afghanistan”. La maggior parte arriva già dall’Afghanistan, ma ci sono molti sudafricani, marocchini, tunisini, iraniani.

Ad accoglierli qui ci sono i volontari come Omar, britannico di origini siriane, attivo da quest’estate. Ha soccorso persone che nel Paese d’origine lavoravano come dottori, professori, ingegneri, operai, cuochi: “Sono padri e madri costretti a partire per dare una possibilità ai figli”. Poi ci sono gli operatori della Fondazione Talità Onlus: Lavdosh viene da Tirana, è in Italia da 31 anni e lavora qui dal 2018; Carlo ha iniziato a ottobre, è arrivato da Torino ma è originario di Reggio Calabria, ha una fede al dito e la barba folta di un 30enne (“Questa è la mia prima esperienza con i migranti. Faccio del mio meglio, provo a dirgli che è pericoloso ma non vogliono sentire ragioni”). Per proteggere tutti dal gelido inverno, la struttura ha un magazzino in cui vengono raccolti i vestiti donati dalla comunità: a gestirlo è Elena. Silvia, un’altra volontaria, le ha appena portato un borsone pieno di indumenti.

Hanno bisogno di guanti, ora più che mai. Soprattutto quando il sole cala, e con lui la temperatura. Si spera che non arrivi nessuna segnalazione di qualche disperso nel bosco: in pieno inverno si va anche a -20 gradi, da queste parti. E senza i giacconi e le sciarpe del magazzino gestito da Elena e delle altre volontarie, il viaggio non è più sostenibile.