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Alzheimer: gli ultrasuoni miglioreranno l’efficacia delle cure?

Secondo il Rockefeller Neuroscience Institute, le onde sonore sono capaci di rompere lo scudo protettivo del cervello e far agire più velocemente i farmaci per il trattamento della malattia
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5 febbraio 2024 Aggiornato alle 10:00

Gli scienziati del Rockefeller Neuroscience Institute della West Virginia University hanno trovato un modo per aiutare i farmaci contro l’Alzheimer a penetrare più velocemente nel cervello, rompendo temporaneamente il suo scudo protettivo.

Di recente è stato approvato un nuovo farmaco contro la malattia, l’Aduhelm, in grado di rimuovere parte dell’amiloide che forma le placche cerebrali, segni distintivi dell’Alzheimer. Quando questo farmaco viene utilizzato, la maggior parte viene “sprecato” davanti all’ostacolo della barriera ematoencefalica, un rivestimento protettivo dei vasi sanguigni che serve a proteggere il cervello dalle tossine e dalle infezioni, impedendo ai germi e ad altre sostanze dannose di penetrarvi dal flusso sanguigno, ma che può anche bloccare i farmaci contro l’Alzheimer, i tumori e altre malattie neurologiche, richiedendo dosi più elevate per periodi più lunghi sufficienti a raggiungere il loro bersaglio all’interno del cervello.

A partire da questa consapevolezza, i ricercatori hanno iniziato a studiare diverse possibilità per poter aprire la barriera emato-encefalica per un breve lasso di tempo, quanto basta per somministrare il farmaco e aumentarne così l’efficacia. La strada più idonea e applicabile è risultata essere quella degli ultrasuoni.

Così, in uno studio pubblicato sul New England Journal of Medicine, i ricercatori hanno descritto un esperimento eseguito testando il metodo sperimentale a ultrasuoni su un’area di cervello di 3 diversi pazienti umani e confrontando, a distanza di 6 mesi, i risultati della cura innovativa con l’area encefalica non trattata.

La tecnologia testata dagli studiosi del Rockefeller Neuroscience Institute utilizza impulsi di ultrasuoni altamente focalizzati insieme a minuscole bolle di gas per aprire la barriera emato encefalica senza distruggerla e senza procurare gravi danni al cervello: nel dettaglio, vengono iniettate minuscole microbolle di gas perfluorocarburo con dimensioni variabili da 1,1 a 3,3 micron; successivamente, sull’area di cervello da trattare vengono trasmessi, attraverso un dispositivo simile a un casco, degli impulsi di ultrasuoni a bassa frequenza.

Gli impulsi creano onde nel fluido nei vasi sanguigni che fanno vibrare le microbolle, che si espandono e si contraggono rapidamente. Questo movimento apre i vasi sanguigni senza danneggiarli, consentendo l’ingresso dei farmaci nel cervello.

Nel caso specifico dello studio Ultrasound Blood–Brain Barrier Opening and Aducanumab in Alzheimer’s Disease, Ali Rezai, neurochirurgo dell’Istituto, a capo del team di ricerca, ha somministrato ai 3 pazienti con Alzheimer (due uomini e una donna di età compresa tra 59 e 77 anni) lievi dosi mensili di Aduhelm per 6 mesi.

Subito dopo ogni flebo, ha puntato gli ultrasuoni focalizzati su una specifica area del cervello ostruita dall’amiloide (una proteina appiccicosa che si accumula in alcune regioni del cervello e interrompe la funzione dei neuroni) di ciascun paziente, aprendo la barriera emato-encefalica in modo che una quantità maggiore della dose giornaliera potesse entrare in quel punto.

A distanza di 6 mesi dal primo trattamento a ultrasuoni, le scansioni Pet hanno mostrato una riduzione della placca di amiloide maggiore di circa il 32% nei punti in cui la barriera emato-encefalica è stata violata rispetto alla stessa regione sul lato opposto del cervello.

Si tratta di risultati straordinari nel campo della medicina: «Questo studio pilota è molto importante, ma è ancora troppo piccolo per consentire di trarre conclusioni - ha dichiarato Eliezer Masliah del National Institute on Aging – tuttavia, sono dati molto interessanti e convincenti e la ricerca apre sicuramente la porta a studi più estesi e più ampi”», ha aggiunto.

L’Alzheimer non è l’unico obiettivo degli studi concentrati sulla violazione della barriera emato-encefalica per somministrare farmaci ai pazienti: per esempio un gruppo di ricercatori, guidato da Nir Lipsman, neurochirurgo del Sunnybrook Research Institute dell’Università di Toronto, ha aperto la barriera per somministrare un farmaco chemioterapico al cervello di 4 pazienti affetti da cancro al seno che si era diffuso al cervello. In questo caso, la concentrazione del farmaco, il Trastuzumab, è aumentata di 4 volte.

Alexandra Golby della Harvard Medical School e i suoi colleghi, invece, hanno utilizzato il metodo per curare pazienti affetti da glioblastoma, un tipo di tumore al cervello.

Quello che impiega microbolle e ultrasuoni non è l’unico metodo sperimentato dai ricercatori internazionali per far arrivare al cervello i farmaci: Masliah, infatti, ha dichiarato che gli scienziati stanno studiando anche altre 2 diverse tecniche.

La prima è nota come approccio del “cavallo di Troia” e prende il nome dal grande cavallo di legno che nella mitologia si dice sia stato scambiato per un dono dai troiani, che lo portarono all’interno delle porte della città, insieme ai guerrieri greci nascosti al suo interno. In campo farmaceutico, i ricercatori collegano un farmaco a un’altra molecola che riconosce un recettore nella barriera ematoencefalica. Questo recettore aiuta il farmaco ad attraversare la barriera e raggiungere il cervello. La seconda strategia, invece, si chiama transcitosi e funziona come una staffetta in cui le molecole si passano il farmaco l’una all’altra.

In ogni caso, si tratta di esperimenti e strategie ancora molto lontani dall’essere realizzabili in campo medico: probabilmente saranno necessari anni di lavoro prima che il trattamento con ultrasuoni focalizzati possa diventare un’opzione approvata per i pazienti affetti da Alzheimer o altre malattie neurologiche. Al momento, infatti, scienziati e studiosi sono ancora al primo step delle fasi di ricerca, quello sulla verifica della sicurezza degli esperimenti.

La misurazione dei risultati clinici veri e propri su larga scala è un passo ancora molto lontano, come ha sottolineato Joshua Grill, professore di Psichiatria e comportamento umano presso l’Università della California a Irvine.

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