Ambiente

Andrea Staid: «Ripensare quel che c’è già e renderlo migliore: è un modo per abitare sostenibile»

La Svolta ha intervistato l’antropologo in occasione dell’evento Leggere per insegnare, per capire come poter «costruire le nuove case all’interno delle nostre case» e parlare dell’importanza della formazione scolastica sui temi ambientali
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16 gennaio 2024 Aggiornato alle 16:00

La Svolta ha raggiunto l’antropologo Andrea Staid, tra una lezione e un’altra all’università, qualche ora prima di una conferenza e poche ore dopo il rientro da un viaggio in India: «Sono un po’ così, stranito. Non ho mai subito il jet lag, invece stavolta lo sto sentendo molto. Purtroppo si invecchia…». Probabilmente Andrea Staid è come il vino: invecchiando migliora e fa cose sempre più interessanti. Come Leggere per insegnare, per esempio, l’incontro che si è tenuto oggi, martedì 16 gennaio (dalle 9:30 alle 12:30), al Centro Internazionale di Brera (via Formentini 10 a Milano).

L’obiettivo dell’evento: prevenire l’abbandono precoce della lettura, soprattutto da parte dei giovanissimi in condizioni di fragilità sociale e culturale. La cornice dell’incontro è stata La Lettura Intorno, il progetto di inclusione culturale di BookCity Milano ideato e promosso insieme a Fondazione Cariplo, dedicato specialmente alle bambine, ai bambini, alle ragazze e ai ragazzi dai 6 ai 14 anni.

Tra gli interventi: quello dell’ex magistrato Gherardo Colombo, sui temi legati alla Costituzione e alla legalità; la psicoanalista Laura Pigozzi per l’educazione affettiva e i rapporti interpersonali; Andrea Staid (docente di Antropologia culturale e visuale alla Naba di Milano e all’Università di Genova, autore di libri tradotti in Grecia, Germania, Spagna e Cina, come Essere natura, oltre a dirigire per Meltemi la collana Biblioteca Antropologia) ha parlato di ambiente e sostenibilità.

Com’è andata in India?

Bene, è sempre un’esperienza molto particolare. Oltretutto sugli argomenti dell’incontro (Leggere per insegnare, ndr) e sui temi dei miei ultimi libri c’è tanto da dire, nel senso che l’India è tutto e il contrario di tutto, perché da una parte c’è un grande sapere vernacolare nella gestione delle risorse, dall’altro nelle grandi città come New Delhi, da dove sono ripartito… l’inferno in terra: è quello che potrebbe succedere se non cambiamo subito. Una città invivibile, irrespirabile, piena di rifiuti. Quindi sì, diciamo che l’India è un’esperienza forte, interessante, con grandi contraddizioni e anche con grandi risposte.

Torniamo in Italia. Qual è la chiave per parlare di sostenibilità e ambiente ai ragazzi e alle ragazze?

Sicuramente ci sono tante chiavi, non credo ce ne sia soltanto una. È un lucchetto con più buchi, almeno me lo auguro. La mia è una visione abbastanza ottimista quando parlo con i giovani, nel senso che io voglio parlare del cambiamento possibile come una grande opportunità e non come una classifica di cose sfortunate che dobbiamo abituarci a fare. Molto spesso se ne parla così: “Per resistere al cambiamento climatico, non possiamo più fare questo, non possiamo più fare quello…”.

Io invece la vedo in positivo e cioè: fino adesso abbiamo vissuto un grande bluff, era quello di vivere in un modo illimitato in un Paese, in un mondo, in una terra che ha risorse limitate. Oggi i giovani sono consapevoli che questo è stato un bluff e dobbiamo ri-coordinarci e ri-significare le nostre esistenze. Solo che questo dal mio punto di vista è positivo, non è negativo.

Cosa hai voluto raccontare, quindi, alla tua platea?

Che possiamo ritualizzare questo cambiamento tramite delle grandi possibilità che sono quelle, appunto, di vivere più lentamente, spostarsi e mangiare in modo più sostenibile, soprattutto fare i conti con quelle che sono le nostre azioni. Credo che sia bello. Il brutto è stato vivere senza pensare alle conseguenze delle nostre azioni.

Secondo te, gli studenti e le studentesse sono già consapevoli di tutto questo, oppure potrebbero incontrare difficoltà nel capire tutti questi temi?

Secondo me, i giovani sono molto consapevoli, chiaramente non tutti e non tutte, questo mi sembra ovvio, no? In questo anno di presentazioni, conferenze e festival per Essere natura mi sono reso conto che giovani e anziani sono molto consapevoli. Il problema sono quelli della mia età, cioè la generazione 30-40-50, sono quelli che hanno detto: “Ma come? Avevamo pensato di poter vivere in quel mondo di sviluppo sfrenato e di benessere continuo legato alle merci e adesso ci dicono che non è vero?”. E non vogliono lasciare andare quel vecchio modo di pensare al mondo, mentre i giovani e gli anziani secondo me hanno capito l’urgenza, l’importanza e la bellezza del cambiamento possibile.

Quindi, paradossalmente, potrebbero essere proprio i docenti e le docenti, magari più vicini a quelle fasce d’età, ad avere maggiori difficoltà?

Secondo me sì; è così importante fare queste formazioni, queste lezioni proprio per i docenti, perché sono quelli che daranno il timone, le bussole giuste ai ragazzi. Sono esempi importanti. Da professore credo che l’università non sia assolutamente la scuola più importante per la formazione dei ragazzi. È ovviamente importante. Amo il mio lavoro. Ma sono già grandi. Invece la cosa importante è sostenere e finanziare il processo di continua formazione per maestri delle scuole dell’infanzia e delle elementari, per professori delle medie e superiori. Quindi sono molto felice di fare quest’iniziativa.

Ma c’è un modo o una tecnica migliore per parlare di questi argomenti per insegnarli e trasmetterli agli altri?

Sì, per esempio, non stare sempre chiusi nelle aule delle scuole, ripensare la geopolitica degli spazi interni - esterni della formazione e soprattutto ribaltare il concetto che gli insegnamenti siano soltanto teorici. Occorre pensare che anche le pratiche possono andare alle teorie: cioè, molto spesso non comprendiamo il cambiamento perché lo teorizziamo senza praticarlo; e quindi la scuola dev’essere una grande fucina di pratiche (non soltanto di teorie e formazioni) che sappiano cambiare quelle che sono sempre state le nostre strutture mentali su come devono essere le scuole.

Come dovrebbero essere dunque le scuole?

Sempre meno chiuse, sempre più aperte. Ovviamente so bene che per fortuna non sono l’unico a dire queste cose. Ci sono un sacco di progetti di scuole aperte anche all’interno delle scuole pubbliche statali, perché è fondamentale poi pensare che la maggior parte delle persone possano avere questo tipo di formazione, non solo perché se lo possono permettere ma perché sono le scuole pubbliche che cambiano.

Ci spoileri qualcuno dei tuoi consigli di lettura sia per i ragazzi e le ragazze, sia per i docenti e le docenti?

Sono tanti quelli che mi sento di dare generalmente quando si parla di questi temi. Per i professori e le professoresse (quindi per i grandi e per chi ha già un certo tipo di formazione), un libro importante da leggere in questo momento di grandi cambiamenti, anche se complesso, è Esiste un mondo a venire? di Déborah Danowski e Viveiros de Castro, che da un punto di vista filosofico e antropologico parla proprio del cambiamento e delle possibilità. La domanda è: esisterà un mondo per il nostro futuro? Invece per i ragazzi e le ragazze delle scuole, potrebbe essere la graphic novel tratta da Sapiens di Harari.

C’è un aspetto in particolare dell’abitare sostenibile, uno dei tuoi temi forti, che vorresti far capire ai ragazzi e ai docenti?

Ti rispondo con una provocazione: la casa più ecologica è quella che non costruiamo, nel senso che il nostro suolo è già completamente distrutto da un esagerato monte di costruzioni; quindi la casa più ecologica e meno impattante è quella che smettiamo di costruire. Significa che dobbiamo ripensare a costruire le nuove case all’interno delle nostre case. Significa lavorare su coibentazioni, su consumi e soprattutto sugli sprechi. È un po’ che lo dico durante le mie conferenze: una delle cose che più mi manda ai matti è che siamo in un mondo che è stato capace di pensare alla fibra ottica nelle case, ma ancora quando tiriamo lo sciacquone per i nostri rifiuti organici usiamo l’acqua potabile. La maggior parte delle persone su questo Pianeta non ha la possibilità di averla.

Cosa possiamo fare?

Dobbiamo ripensare quello che già c’è e renderlo migliore. Questo è un modo per abitare sostenibile. Sono sempre convinto del fatto che l’abitare sostenibile non è soltanto una questione materica, ma anche una questione simbolica e quindi occorre capire come costruire delle simbologie che possano portare a nuovi modi di vivere all’interno delle città, nelle campagne, nel territorio.

A un certo punto della tua vita, come scrivi in La casa vivente, hai scelto di vivere in un’abitazione auto-costruita, ecologica, in Liguria

Io credo di aver fatto una scelta giusta e sostenibile, ma è una delle tante possibilità, perché non è che tutti possano andare a vivere in cima a una montagna: penso a disabilità, risorse, altri tipi di lavoro. Io ho la fortuna di lavorare pochi giorni alla settimana per guadagnarmi il salario, quindi ho tanti giorni per coltivare e poter vivere in una casa che per molti sarebbe anche scomoda perché ci si arriva solo a piedi e c’è bisogno di tempo. Però sono convinto che una delle possibilità è tornare a saper fare. Quindi ecco, il mio esempio potrebbe essere questo: visto che ho fatto un dottorato in antropologia, non è che devo fare soltanto l’antropologo nella vita; è che mi riguarda quello che mi circonda. E quindi si può tornare a essere Homo Faber e non più soltanto Homo Comfort. Qui Homo è inteso come Homo sapiens sapiens, non come uomini o donne da un punto di vista di separazione di genere.

Quali sono i tuoi prossimi progetti?

Sto scrivendo un libro nuovo da un po’, uscirà prima o poi. Vado molto per trilogie nel mio lavoro. Sulle migrazioni mi sono occupato di braccianti, di microcriminalità e di erranza contemporanea. Adesso mi sono occupato appunto delle case ecologiche, poi della questione cosmologica e ora sto lavorando sul design, quindi su un concetto di design sostenibile e non antropocentrico.

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