Economia

Una cosa è influenzare, un’altra è manipolare le decisioni degli altri

Grazie alle linee guida dell’Agcom, la pubblicità delle “star social” verrà regolamentata. Ma che fare quando i nostri beniamini non sono persone in carne e ossa? Gli influencer “sintetici” sono già tra noi
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12 gennaio 2024 Aggiornato alle 06:30

Le linee guida appena approvate dall’Autorità Garante per le Comunicazioni (Agcom), all’esito di una lunga consultazione pubblica (circostanza che vale la pena richiamare fin da subito per evitare che si pensi e si scriva che si tratta di una risposta al celeberrimo caso Ferragni), rappresentano un passo importante lungo una strada che non dovremmo mai smettere di percorrere e che, anzi, dovremmo imparare a intraprendere a passo sempre più veloce: una strada che scongiura il rischio che condotte considerate illecite ieri, risultino lecite oggi solo perché attuate in forma diversa.

L’Agcom, con il suo intervento, in fondo, ricorda e sottolinea ciò che avrebbe dovuto essere ovvio a tutti da tempo: le regole sulla pubblicità, a cominciare da quella che esige trasparenza del messaggio, si applicano anche agli influencer, ovvero a quelle persone che scelgono di mettere la popolarità digitale, comunque acquisita, al servizio di brand, produttori e distributori di qualsivoglia genere di prodotti e servizi.

E questo semplicemente perché fare pubblicità e provare così a influenzare le scelte di consumo è lecito ma provare a manipolare queste stesse scelte, fornendo a utenti e consumatori informazioni parziali e inesatte (a cominciare proprio dal non dire che si promuove un prodotto o un servizio non per libera convinzione ma perché si viene pagati) è illecito, chiunque lo faccia.

Non si tratta né di forma, né di capricci da legulei: il punto è che se sappiamo che il giudizio su un prodotto o un servizio è figlio di una commessa pubblicitaria, da utenti e consumatori innalziamo filtri che ci consentono di recepire quel giudizio per quello che è (ovvero non un disinteressato suggerimento di un altro utente o consumatore o, magari, di un personaggio che gode della nostra fiducia e ammirazione) ma come, appunto, un messaggio pubblicitario, in tutto e per tutto eguale (forma a parte) alle inserzioni televisive che ci bombardano da sempre sui giornali, in radio e in televisione.

Insomma: influenzare sì, manipolare no e, soprattutto, non esiste nessuna deroga alle regole sulla correttezza e trasparenza della pubblicità per il semplice fatto che a far pubblicità sia questo o quel beniamino online di grandi o piccini.

Questa è la sintesi del recentissimo intervento dell’Agcom sul fenomeno dilagante degli influencer, un intervento indiscutibilmente opportuno che, forse, più e prima di essere apprezzabile in termini di innovazione giuridica, dovrebbe esserlo in termini educativi e culturali perché capace, auspicabilmente, di mettere a nudo i tanti re e regine social che ormai popolano l’arena digitale, ricordando a tutti che, sempre più spesso, specie online, l’apparenza è diversa dalla realtà e tante apparentemente genuine e veraci scene di vita quotidiana, che rimbalzano sui profili dei tanti beniamini digitali, possono nascondere messaggi promozionali subdoli che rispondono a un solo obiettivo: strumentalizzare la fiducia che l’influencer di turno si è conquistata per indurci a una scelta commerciale che altrimenti non avremmo compiuto.

E, però, come spesso accade nell’eterno inseguimento tra regolamentazione e innovazione, proprio mentre Agcom aggiunge un nuovo tassello a un fenomeno odioso come quello dell’influencer marketing poco trasparente e illecito, il fenomeno si evolve e si avvia a sostituire le e gli influencer in carne e ossa con influencer “sintetiche” e digitali, persone-non persone che semplicemente non esistono, generate nei laboratori di intelligenza artificiale, con sembianze umane e un solo obiettivo: conquistarsi la fiducia del pubblico, macinare follower e contatti e poi mettere la popolarità conquistata a servizio di chi ha dato loro i natali per promuovere ogni genere di prodotto o servizio proprio come farebbe un influencer vero.

Per averne un’idea senza andare lontano basta guardare il profilo di Francesca Giubelli, giovanissima influencer “sintetica” giallorossa della Garbatella; mentre se si vuole attraversare l’oceano, bisogna guardare Emily Pellegrini per la quale pare che più di un personaggio del jetset abbia già letteralmente perso la testa.

Un livello di complessità superiore, di diversi ordini di grandezza, rispetto al fenomeno con il quale ci siamo confrontati sin qui per tante ragioni diverse. La prima è quantitativa: il numero di influencer digitali con il quale ci troveremo a confrontarci nei mesi e negli anni che verranno non ha niente a che vedere con quello già rilevante degli influencer in carne e ossa con il quale ci confrontiamo oggi. E se è già difficile esigere il rispetto delle regole da tutti quelli veri (tanto che la stessa Agcom è costretta, almeno in prima applicazione, a concentrarsi su quelli con più seguito), figurarsi domani con tutti quelli digitali.

La seconda è che nel bene e nel male, l’influencer “tradizionale” (come insegna la vicenda di Chiara Ferragni) ci mette la faccia, con la conseguenza che, quando qualcosa va storto, è facile identificarlo e chiamarlo a rispondere della violazione delle regole. Ma se la faccia che ci si mette è una faccia “sintetica” di qualcuno che all’anagrafe non esiste, come la mettiamo?

E allora qui serve un livello di trasparenza altro e diverso rispetto a quello che giustamente si esige dagli influencer tradizionali: non solo dichiarare la natura pubblicitaria del post, del video o della storia di turno ma, ancora prima, dichiarare che si è solo (che nessuno si offenda) un burattino digitale e che il burattinaio è questa o quella società commerciale. Altrimenti quel far west che le nuove linee guida di Agcom vorrebbero contribuire a eliminare, tornerà in fretta a essere teatro di un mercato fuori controllo.

E poi c’è, tra le tante, un’altra ragione: pubblicità a parte, le e gli influencer sono persone delle quali un pubblico più o meno vasto si fida, al quale chiede consigli, al quale racconta tanto di sé, in alcuni casi, persino, dei quali ci si innamora. Ora che succede a questa relazione quando il nostro beniamino o la nostra beniamina in realtà è solo un burattino nelle mani di qualcun altro? Quella montagna di informazioni, dati e talvolta persino sentimenti che pensiamo di consegnare nelle sue mani e invece consegniamo in quelle del suo burattinaio: dove vanno a finire e come saranno utilizzati?

Ecco: nel salutare con soddisfazione le nuove regole varate dall’Agcom, queste sono questioni che dovremmo porci e affrontare il prima possibile.

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